Povertà e diseguaglianza, le colpe della mano visibile dello stato

Un paese con pressione fiscale scandinava e disuguaglianza anglosassone

20 Maggio 2017

Il Foglio

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Il ritratto dell’Italia che emerge dal Rapporto annuale dell’Istat è quello di una società frammentata e disgregata, in cui le grandi classi sociali-borghesi e operai si sono assottigliate, ma anche stratificata e cristallizzata per l’assenza di mobilità sociale. Probabilmente non poteva essere altrimenti dopo una lunga doppia recessione da cui solo nell’ultimo periodo si sta lentamente uscendo. In sintesi, l’Italia scansionata dall’Istat, è stata descritta come un paese più povero e più disuguale. Questo quadro parrebbe confermare la narrazione prevalente della crisi che, secondo una formula efficace e consolidata, si riassume in: “I ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri”. La soluzione contro povertà e disuguaglianza sarebbe quindi un maggior intervento redistributivo da parte dello stato, per ridurre gli effetti negativi delle forze selvagge del mercato. In realtà non è così. La situazione è, come dire, un po’ più complessa.

Se si leggono con attenzione i dati dell’Istat e quelli delle altre organizzazioni internazionali sulla disuguaglianza, si noterà che l’Italia si trova in una condizione singolare. Innanzitutto, a differenza di quanto si dice in continuazione, in questo ventennio in Italia la disuguaglianza dei redditi misurata con l’indice di Gini non è aumentata, ma è rimasta più o meno costante (nel 2015 pari al 32,4 per cento, nel 2010 era 31,7, nel 2005 era 32,7). Ma la vera particolarità è che l’Italia ha un livello di disuguaglianza superiore alla media, simile al Regno Unito, dove però la pressione fiscale e la spesa pubblica sono molto più basse. E allo stesso tempo l’Italia ha un livello di tassazione molto elevato, simile alla Svezia, dove però la disuguaglianza è molto più bassa. Questo ircocervo con pressione fiscale scandinava e disuguaglianza anglosassone è il frutto del cattivo funzionamento dello stato, della macchina pubblica. Per dirla con le parole dell’Istat: in Italia la capacità redistributiva dell’intervento pubblico è tra le più basse nei paesi europei. Non solo.

L’Italia una disuguaglianza dei redditi di mercato — ovvero prima dell’intervento dello stato — tra le più basse del continente, oltre 3 punti al di sotto della media europea (51,9 Ue27 e 48,6 Italia). Mentre ha una disuguaglianza dei redditi disponibili ovvero dopo che lo stato interviene attraverso il prelievo e la redistribuzione fiscale 1,4 punti superiore alla media europea (31 Ue e 32,4 Italia).

Da un lato lo stato tassa molto, impoverendo chi lavora e produce ricchezza. Basti pensare che il cuneo fiscale pesa quasi la metà della retribuzione lorda, con un peso eccessivo dei contributi sociali che, dice l’Istat, “contribuisce a rendere meno egualitari gli effetti redistributivi del sistema” colpendo “i gruppi sociali maggiormente presenti sul mercato del lavoro”. Dall’altro la spesa pubblica non è indirizzata verso chi ha maggiormente bisogno, ma è completamente sbilanciata verso i pensionati: “I dati Eurostat scriva l’Istat mostrano che, nel nostro paese più che altrove, gran parte dell’azione redistributiva è svolta dai trasferimenti pensionistici”. La spesa pensionistica rappresenta 1’85 per cento della riduzione della disuguaglianza, che vuol dire che gli altri strumenti di sostegno al reddito come sussidi di disoccupazione, integrazione per le famiglie a basso reddito, assegni familiari e di maternità praticamente non esistono. Questi dati generali sono confermati da quelli più puntuali dell’Ocse che si concentrano sulle singole politiche di inserimento al lavoro e riduzione della povertà.

Ciò vuol dire che il disagio sociale è in Italia un problema concreto, ma gran parte della responsabilità non è della mano invisibile del mercato bensì della mano visibile dello stato. La soluzione pertanto non può essere ampliare il perimetro pubblico, ma ridurlo e riformarlo: liberare risorse per abbassare la pressione fiscale e favorire la crescita economica, reindirizzare la spesa pubblica verso chi ne ha realmente bisogno per ridurre povertà.

Da Il Foglio, 19 maggio 2017

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