Il linguaggio giuridico ha una funzione anestetizzante: postille, rinvii, dicuismi appannano la vista dell’osservatore più attento. Questo vale anche per i nostri parlamentari: tant’è che tutto può passare in votazione tra un comma bis e un quater.
Così stava per accadere per una delle norme dei decreti legislativi della delega fiscale, sottoposto al parere del Parlamento. Meno annebbiato di altri è stato lo sguardo di Nicola Porro, che ha prontamente segnalato la cosa all’opinione pubblica.
Il codicillo prevedrebbe che «la mancata o inesatta indicazione del soggetto beneficiario delle somme prelevate nell’ambito dei rapporti e delle operazioni di cui all’articolo 32, primo comma, n. 2, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, è punita con la sanzione dal 10 al 50 per cento delle predette somme, salvo che non risultino dalle scritture contabili».
Il tono evanescente della disposizione è inversamente proporzionale agli effetti potenziali: le partite IVA che non diano dimostrazione, ove richiesto, di dove sono andati a finire i prelevamenti effettuati nell’ambito di rapporti bancari sono sottoposte a una sanzione che può arrivare alla metà della somma di cui non sa dire come l’ha usata.
La norma è tre volte aberrante.
Da sudditi di uno Stato onnivoro e prepotente, siamo ormai assuefatti all’idea di un rapporto del tutto sbilanciato con il nostro sovrano. Tuttavia, imputare a un lavoratore autonomo un illecito solo perché non si è annotato a chi sono andati i soldi prelevati, questa davvero può essere la pretesa solo del più dispotico dei tiranni. Non gli basterebbe infatti tenere le ricevute dei prelievi, ma dovrebbe anche spillarci sopra le ricevute di dove ha speso quei soldi, se, come pare, la sanzione si applica a prescindere dal tipo di spesa e quindi anche per quelle personali.
In secondo luogo, la norma sfida una dichiarazione di incostituzionalità di qualche mese fa, che aveva riportato un minimo di giustizia nella selva delle presunzioni fiscali. La Corte costituzionale aveva infatti reputato illegittimo che i costi sostenuti da liberi professionisti di cui gli stessi non fossero riusciti a dimostrare da quale guadagno provenissero potessero ritenersi frutto di evasione. Un’altra aberrazione, che già avevamo segnalato.
Di soppiatto, lo schema di decreto legislativo replica in sostanza a quel tentativo della Corte di riportare almeno per i liberi professionisti un minimo di equità. Esso trasforma una presunzione che era divenuta illegittima in una sanzione collegata, per di più, non alla mancata giustificazione sulla provenienza dei soldi prelevati, ma persino alla mancata indicazione della destinazione degli stessi.
Infine, l’aberrazione dell’incomprensibilità: la scarsa chiarezza della disposizione, e di quelle che a sua volta sono da essa rinviate, rende del tutto sibillino il significato delle parole. Stavolta, la notizia è trapelata sulla stampa prima che la norma fosse approvata dal governo. Ma non sempre capita che si riesca ad essere così attenti. La nostra ignoranza è la migliore garanzia dell’onnipotenza di Stato. Leggi incomprensibili preservano l’una e l’altra.