Il primo trilionario? Non è uno scandalo

Ben vengano gli imprenditori che si arricchiscono grazie a chi volontariamente compra le loro idee


19 Febbraio 2024

La Provincia

Carlo Lottieri

Direttore del dipartimento di Teoria politica

Argomenti / Economia e Mercato

Nelle scorse settimane la stampa ha dato spazio a una “non notizia” diffusa da Oxfam, una delle onlus più potenti a livello internazionale che da decenni è in prima linea per affermare un ordine sociale basato sull’eguaglianza. La tesi sarebbe che (forse) tra dieci anni – ma la stima ovviamente è spannometrica – ci troveremo a fare i conti con un “trilionario”: ossia, con un solo individuo che disporrà di mille miliardi di dollari. Di fronte a questa prospettiva, che nessuno è in grado di dire quanto sia realistica, le reazioni sono state tra l’allarmato e lo scandalizzato.

In prima battuta, però, c’è da chiedersi se l’eguaglianza sia un valore sempre e comunque, e la diseguaglianza un male in sé; e se si mettono le cose in questi termini quell’interrogativo non ha una soluzione facile. Bisogna infatti chiedersi se si sta parlando di eguaglianza di fronte al diritto (quale assenza di privilegi) oppure di eguaglianza nella ricchezza, nella conoscenza e nel prestigio. L’egualitarismo di matrice socialista ha sempre considerato di scarso rilievo l’uguaglianza giuridica e il fatto che ognuno sia rispettato nei diritti fondamentali; l’obiettivo dichiarato della società nuova – basta leggere il Manifesto di Marx ed Engels – sarebbe infatti la soddisfazione dei “bisogni” di tutti, e non le semplici libertà “formali”.

Il guaio è che questa parificazione sostanziale implica la distruzione del diritto e dell’eguaglianza di fronte a norme giuste. Se infatti si affida allo Stato – come Oxfam e gli altri propongono – il compito di combattere le diseguaglianze materiali, è necessario che i governanti dispongano del tempo e dei beni dell’intera società. Ma, oggi come ieri, la diseguaglianza più ingiusta è quella tra chi rivendica il privilegio d’imporre la propria volontà ad altri e chi è costretto a ubbidire.

Il lupo travestito da agnello
La nozione di sovranità che è al cuore delle istituzioni sorte all’indomani dell’età medievale interpreta proprio questo abisso che separa i governanti e i sudditi. Se la tradizione libertaria ha sempre avversato questo “doppio standard” (nessuna persona comune può imporre la sua volontà al prossimo, ma possono farlo quanti hanno un ruolo pubblico), il trionfo delle tesi socialiste ha permesso ai poteri sovrani d’imbellettarsi: e così il lupo s’è travestito da agnello.

Nel momento in cui le tesi di solidaristi, liberal, tecnocrati e fabiani hanno avuto successo, il potere statale che ha moltiplicato a ogni latitudine le vedove e gli orfani s’è autorappresentato come il difensore delle une e degli altri. Non c’è allora da stupirsi se i nostri ordinamenti considerano un nemico non già soltanto la povertà (com’è giusto), ma pure la diseguaglianza.

Questa reinvenzione ideologica del potere sovrano ha permesso l’espansione di tassazione e spesa pubblica, oltre che la monopolizzazione della moneta. In tal modo, molte delle ricchezze accumulate da quanti si ritrovano a Davos sono il risultato di una serie di interventi politici. Solo per fare qualche esempio, è evidente che la “green transition” che mette al bando le automobili a benzina abbia arricchito gli azionisti di Intel; che le alte barriere all’ingresso nel mercato del credito siano un regalo ai banchieri; che le politiche monetarie espansive, basate su tassi d’interesse artificiosamente bassi, abbiano spostato capitali da quanti hanno crediti a quanti hanno debiti; e via dicendo.

In sé, diventare ricchi non comporta crimini o aggressioni. Al contrario, chi fa un mucchio di soldi sul mercato raggiunge tale posizione perché soddisfa il pubblico: fosse anche giocando a calcio o cantando motivetti ascoltati da milioni di persone. Per giunta, se domani scoprissi un farmaco che elimina i tumori, forse otterrei quel fatidico trilione in un arco di tempo assai ristretto. Pochi metterebbero in discussione la legittimità di quella ricchezza, che giungerebbe a me a seguito di atti volontari: senza violenza e costrizione.

Nel nostro tempo molte ricchezze di enormi dimensioni devono scandalizzarci, allora, non tanto perché l’eguaglianza sarebbe un valore in sé, ma perchè quell’enorme quantità di risorse è quasi sempre il risultato di azioni politiche, monopoli imposti dalla legge, appalti truccati, finanziamenti pubblici, privilegi di Stato.

Come detto, però, gli ideologi schierati a difesa dei regimi attuali avversano la ricchezza in sé, nella convinzione che il denaro sia in quanto tale una forma di potere. Questa era la convinzione di Karl Marx, secondo cui un libero contratto di lavoro tra un imprenditore e un operaio può rappresentare un dominio perfino peggiore di quello che il proprietario esercita sul suo schiavo. Chi ha soldi e quindi dispone dei”mezzi di produzione” (qualsiasi cosa quella formula significhi) dominerebbe gli altri: anche e soprattutto in una società di mercato. Analogamente, altri studiosi (Michel Foucault, ad esempio) hanno messo sotto accusa la conoscenza, la cultura, le informazioni.

Date queste premesse, non dobbiamo sorprenderci se le istituzioni politiche contemporanee avversano il mercato concorrenziale e la libera espressione delle idee. Se “avere” oppure “sapere” mette a rischio la libertà e la dignità altrui, gli uomini di Stato possono rivendicare il compito di redistribuire la ricchezza e controllare il dibattito pubblico. In nome della libertà, quindi, si costruisce una società sempre più illiberale.

In realtà, entro una società basata sul diritto non si dovrebbero in alcun modo ostacolare la libera espressione delle idee e neppure le interazioni di mercato su base volontaria. Nessuno dovrebbe essere autorizzato a disporre delle risorse e del tempo altrui, né dovrebbe chiudere la bocca al prossimo: qualsiasi cosa egli voglia dire.

Tradurre i dollari in leggi
Un fattore, però, va tenuto in considerazione. Come già s’è detto, la nostra è una società largamente statizzata. Da questo discendono due cose: che in primo luogo le ricchezze e perfino il prestigio di talune idee sono in larga misura il risultato di azioni ingiuste e illegittime; e che in secondo luogo – poiché esistono soggetti (gli uomini di Stato) che sono in grado di imporre la loro volontà a chiunque – oggi cultura e ricchezza possono effettivamente convertirsi in potere politico. In una società come la nostra, chi possiede tanti soldi può tradurre i propri dollari in leggi. Negli scritti degli economisti esiste una formula ormai consolidata che esprime tutto questo: “regulator capture” (cattura del regolatore).

Siamo quindi di fronte a un bivio. O continuiamo a difendere questo ordinamento statocentrico, che attribuisce a un piccolo gruppo di persone il monopolio della violenza e che genera ricchezze senza legittimazione che si convertono continuamente in potere sugli altri; oppure si comprende che i principi del diritto va preso sul serio e che il monopolio statale della violenza è intimamente anti-giuridico. Se s’imboccasse questo secondo percorso, ogni ricchezza sarebbe costantemente sotto la pressione competitiva di altri soggetti e rimarrebbe tale nel tempo soltanto se in grado di soddisfare le domande del pubblico.

Finchè non saremo neppure in condizione di capire che questa (tra Stato e libertà) è la scelta cruciale che siano chiamati a fare, continueremo ad avere miliardari parassitari che finanziano ideologie redistributive. Il teatrino di un potere strutturalmente ipocrita continuerà a chiedere più Stato alfine di avere meno miliardari; e l’unico risultato sarà che, come oggi, continueremo ad avere miliardari che sono assai più parassiti che veri imprenditori.

da La Provincia, 18 febbraio 2024

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