Le privatizzazioni non dovrebbero essere viste come una mera questione di cassa
Quando, a settembre, il governo inserì nella Nota di aggiornamento al Def la previsione di un gettito pari a circa un punto di Pil da privatizzazioni, molti reagirono con scetticismo. Non era la prima volta che tale espediente veniva utilizzato per far tornare i conti, ben sapendo che l’impegno non sarebbe stato mantenuto. Invece, complice forse il buco drammatico lasciato dal superbonus, il governo Meloni sta facendo quello che aveva promesso. Dopo la cessione lampo del 20 per cento di Monte dei paschi di Siena (con un gettito di poco inferiore al miliardo), il governo ha avviato le procedure per la privatizzazione del 30 per cento di Poste Italiane (con un gettito atteso attorno ai 5 miliardi) e, pochi giorni fa, ha provveduto a vendere il 2,8 per cento dell’Eni, incassando 1,4 miliardi di euro. L’obiettivo di 21 miliardi di introiti resta lontano, ma non si può negare che per la prima volta da molti anni qualcosa si stia muovendo.
Potenzialmente, il piatto è ricco: come illustra una recente nota dell’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica, il valore delle partecipazioni dirette del Tesoro in aziende quotate è oggi di circa 28 miliardi di euro, a cui si aggiungono circa 30 miliardi di euro di partecipazioni della Cassa depositi e prestiti e i potenziali proventi derivanti dal collocamento in borsa di aziende oggi non quotate (come le Ferrovie dello Stato). Tuttavia, il governo ha chiarito di non voler mettere in discussione il controllo sulle aziende partecipate: questo non solo riduce – e di molto – il gettito potenziale, ma fa anche venire meno il senso politico dell’operazione.
Il dibattito pubblico, infatti, si è concentrato su due aspetti: da un lato il fatto che il risparmio sulle minori emissioni di debito pubblico sarebbe inferiore al flusso di dividendi garantito da aziende come Eni e Poste, dall’altro il fatto che il governo, erodendo le sue partecipazioni nelle grandi partecipate, rinuncerebbe alla capacità di incidere sulla loro governance e strategie e in tal modo finirebbe per ledere l’interesse nazionale. La prima obiezione è debole, perché il prezzo dell’azione esprime precisamente il valore attuale netto del flusso futuro dei dividendi attesi. La seconda obiezione è completamente sballata. Intanto, il controllo resterà allo Stato, quindi questi pretesi rischi non ci saranno. Ma, soprattutto, non è detto che questo coincida con l’interesse nazionale: in che modo questo può essere servito dalla facoltà di nominare amministratori delegati e consigliere d’amministrazione? Al contrario, l’interesse nazionale consiste nell’avere mercato dinamici e contendibili, e questo è spesso incompatibile con la presenza pubblica nel capitale delle imprese. Basti pensare alla recente operazione Poste-Pago PA, che sarebbe giustamente impensabile se Poste fosse una società privata e che non a caso l’Antitrust ha criticato duramente, ottenendone alcuni cambiamenti.
Insomma, il governo sta dando la priorità al contenimento del debito pubblico e quindi prende sul serio l’impegno a privatizzare. Ma le privatizzazioni non dovrebbero essere viste come una mera questione di cassa. Per usare un’espressione a noi non piace ma che piace moltissimo agli uomini politici, esse dovrebbero rappresentare uno strumento di “politica industriale” per restituire dinamismo alla nostra economia. Anziché privatizzare a spizzichi e bocconi, Giorgetti e Meloni dovrebbero almeno considerare la possibilità di un piano radicale di privatizzazioni.