Privatizzazioni infinite, ma lo Stato esce davvero?

Secondo alcune stime, dal 2008 ad oggi, i costi pubblici di Alitalia sono stati pari a 12,4 miliardi, tra perdite, Cigs, fondi vari

31 Gennaio 2022

L'Economia – Corriere della Sera

Argomenti / Politiche pubbliche

Nella storia dell’ex compagnia di bandiera, la politica e i sindacati non si rassegnano a un’evoluzione che ha portato le low cost a diventare le principali concorrenti mentre i vecchi rivali, Lufthansa e Air France-Klm, sono in lizza per un’acquisizione. L’altro pretendente, Msc, è un leader mondiale della logistica con navi cargo, crociere e traghetti. La partita, in questo caso, si gioca in un settore che la crisi pandemica ha reso ancora più cruciale. E il ministero dell’Economia manterrebbe una quota di minoranza. Sempre che la nostalgia…

La storia di quella che fu la compagnia di bandiera è un frammento non piccolo della nostra identità nazionale. Ci siamo dentro tutti. Anche se in maniera più o meno preterintenzionale. Nel bene e nel male. L’Alitalia è stata per tanti anni un simbolo del miracolo economico. il tricolore solcava i cieli con la stessa forza economica e la medesima dignità di operatori di Paesi più ricchi, alcuni dei quali la guerra l’avevano vinta. Ne eravamo tutti fieri. I dipendenti della compagnia di bandiera erano invidiati e ammirati. Così tanto da spingerli a ritenersi una sorta di élite professionale. Condizione un tempo assolutamente meritata, poi un po’ meno avendo assunto le sembianze di una casta. La proprietà era pubblica, dell’Iri, e ciò contribuì a coltivare un’insana illusione. La convinzione che lo Stato non ne potesse fare a meno, perché ne andava della propria identità, del proprio prestigio. Non c’era liberalizzazione dei cieli (in Europa avvenuta nel 1997) o processo di concentrazione del trasporto aereo che tenesse e, tanto meno, potevano contare i vincoli economici. C’erano fondi di dotazione e prestiti vari. L’Alitalia era come se facesse parte dell’esercito. Indispensabile. A maggior ragione dopo aver sperimentato proprietà improvvisate (la cordata dei «capitani coraggiosi» ai tempi di Berlusconi) o partner del settore con altre finalità (come Ethiad). Questo equivoco, che ha indebolito e sfibrato l’azienda facendola dipendere troppo dagli umori della politica e dalle spinte corporative, è duro a morire. Anche adesso che la vecchia Alitalia non c’è più e il nostro Paese è diventato, per ironia della storia, il mercato più aperto ai low cost. Tutti stranieri.

C’è un mondo, tra la politica e il sindacato, che non si rassegna alla realtà. Il concetto di stakeholder, in Alitalia, è stato interpretato in modo del tutto peculiare. Oggi c’è Ita Airways, sempre pubblica, ma alleggerita di molte pesanti eredità, che ha come concorrenti proprio gli operatori low cost. E, come candidati a un’eventuale acquisizione, i gruppi ai quali un tempo teneva testa (come la tedesca Lufthansa) o le aggregazioni delle quali avrebbe potuto essere socia (Air France-Klm). Ita Airways se non è paragonabile per dimensioni e rotte alla compagnia madre, lo è però ancora nelle perdite. Colpa del crollo del traffico nella pandemia. Tra il 15 ottobre e il 31 dicembre 2021 ha avuto un rosso di 170 milioni. Qualcosa come 134 euro persi a passeggero.

Secondo le stime di un economista di impresa come Andrea Giuricin, dal 2008 ad oggi i costi pubblici di Alitalia sono stati pari a 12,435 miliardi. Cifra che comprende, oltre alle perdite di esercizio, anche prestiti, fondi vari, cassa integrazione, minori entrate fiscali, ecc. Somma alla quale vanno sottratti i costi della bad company del 2017 a carico di fornitori e creditori diversi dallo Stato. Siamo comunque intorno ai 10 miliardi. Nel 2008 l’offerta di Air France-Klm prevedeva il pagamento di 2 miliardi. Con gli occhi di oggi (e il conto totale delle perdite) era un grande affare. Un accordo respinto per accontentare i sindacati e imbarcarsi della disastrosa avventura dei «capitani coraggiosi» per fini anche elettorali. Si sventolò la bandiera dell’italianità invocando l’assoluta necessità per un Paese a vocazione turistica di avere un proprio vettore. E intanto le Regioni già pagavano, non sempre con un adeguato ritorno per i loro aeroporti, gli operatori low cost affinché alimentassero le presenze di turisti. Nessuno poteva però immaginare, nemmeno con un supremo sforzo di fantasia, che un capitolo forse finale della lunga e tormentata vicenda di Alitalia sarebbe stato scritto dal mare, dal trasporto marittimo.

In passato si era a lungo discusso di una possibile integrazione tra le Ferrovie e l’Alitalia. Più per il gusto, quasi accademico, di disegnare scenari però. La disponibilità di Msc (Mediterranean shipping company) dell’armatore italiano, seppure residente in Svizzera, Gianluigi Aponte, ad entrare nel capitale di Ita Airways, con l’alleanza forse inizialmente solo commerciale di Lufthansa, segna un cambio di paradigma nel business dei trasporti che già sta avvenendo a livello mondiale. Un’integrazione verticale degli operatori fortemente accelerata dalla pandemia e dagli investimenti sulla sostenibilità. Ma anche una sfida strategica per il dominio delle rotte commerciali e dei canali distributivi. La Cina mette insieme costruzioni navali, trasporto e logistica. Europa e Stati Uniti rincorrono. In affanno. La carenza di materie prime e i loro prezzi sono un freno formidabile alla ripresa. Ancora oggi ci sono circa 700 navi container in attesa fuori dai porti con tempi di scarico tra i 10 e i 15 giorni. Le merci pregiate e più richieste possono essere consegnate per via aerea. E molte compagnie, a corto di passeggeri, si stanno riconvertendo. In fretta. Peccato che Alitalia la divisione cargo l’abbia ceduta da un pezzo.

Msc è il più grande operatore di shipping al mondo. Nel settore cargo, con 650 navi, ha soffiato il primato al rivale storico, la danese Maersk. Nelle crociere è al terzo posto in termini di fatturato. E con i traghetti (Gnv e Snav) ha altre 700 navi. La sua crescita è avvenuta anche sulla terra: con l’acquisizione progressiva dei terminal portuali e delle società di trasporto, cioè treni e camion. La controllata Medlog/Medway è già il principale operatore italiano della logistica intermodale. Mancavano gli aerei che sono ovviamente funzionali anche ai collegamenti con i porti d’imbarco delle crociere. Una mossa in quella direzione l’aveva già fatta Maersk acquisendo la compagnia aerea tedesca dello spedizioniere Senator.

L’offerta di Msc è stata certamente agevolata dal boom stratosferico dei noli, moltiplicati su alcune rotte anche quattro volte. Un affare da poco più di un miliardo per un gruppo che ne fattura 30, con 100 mila dipendenti, di cui 15 mila in Italia, è di entità modesta. Se l’operazione dovesse andare in porto (mai modo di dire è stato più appropriato) il ministero dell’Economia manterrebbe una partecipazione minoritaria. E, dunque, lo Stato uscirebbe forse è la volta buona dal controllo dell’ex compagnia di bandiera. Senza rimpianti? Non è detto. Le nostalgie sono forti.

Come nota Giuricin, autore di Alitalia. La privatizzazione infinita (Ibl libri), si è continuato a iniettare in Alitalia soldi pubblici nell’illusione che potesse ancora competere con i leader del settore. Più pagava il contribuente più la compagnia si rimpiccioliva diventando gracile e svalutata preda degli altri. La Lufthansa oggi può farsi avanti avendo restituito il prestito statale pandemico, come richiesto dall’Unione europea, non ancora Air France-Klm che pare però interessata. Il futuro di Ita Airways, se l’operazione si farà, sarà così legato alla grande partita internazionale della logistica. E anche alla capacità del Paese, non solo di attrarre passeggeri e turisti, ma anche di essere uno snodo importante ed efficiente lungo le rotte commerciali.

Il traffico dei nostri porti è quasi esclusivamente domestico. Il 98 per cento delle merci che arrivano ha una destinazione nazionale. Non intermediamo quasi nulla. Gli investimenti nei porti (Genova con il terzo valico e Trieste in particolare) nel loro ammodernamento e nei loro collegamenti con l’estero sono essenziali per la crescita e la transizione energetica. Cielo, mare e terra. Però questo slogan meglio non usarlo.

da L’Economia-Corriere della Sera, 31 gennaio 2022

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