Entrare in un tribunale rischiando di non uscirne mai: forse, a sintetizzarla così, la riforma sulla prescrizione può suscitare lo sdegno che merita.
Dal 2020, sarà operativa quella riforma della prescrizione che, nota come sospensione, sarebbe meglio definire come blocco dei termini in appello, anche nel caso di sentenza di assoluzione in primo grado. A volerlo, come noto, è stata la precedente coalizione di governo, in particolare gli alleati grillini e il ministro Bonafede, con una legge che già nel nome ‘volgare’ anticipava il rovesciamento e l’imbarbarimento delle ragioni del diritto: la spazzacorrotti, come se la giustizia fosse diventata una ramazza.
A onor del vero, il travisamento della prescrizione non appartiene però solo al sostrato culturale dei cinque stelle. Pochi anni prima, il ministro Orlando del PD aveva già messo mano alla riforma della prescrizione, allungandone i tempi in secondo grado nel caso in cui il primo si fosse concluso con la condanna dell’imputato. Lo spirito di allora era molto diverso da quello di ora: là si trattava ‘solo’ di ritenere la prescrizione una scappatoia per i rei, qui di ritenere la giustizia un castigo perenne. Già da quella riforma, tuttavia, abbiamo iniziato a perdere il senso e il valore della prescrizione come caposaldo della certezza del diritto, come pilastro della giustizia intesa come bilanciamento (bilancia, appunto, e non ramazza) tra esigenze punitive, capacità ricostruttive dei fatti e obiettivi sociali, e non come pungolo per accelerare i processi o come arma per sottrarsene. Da quella a questa degenerazione il passo è lungo ma il percorso è lo stesso, ed è un percorso che allontana l’ordinamento giuridico italiano dai suoi fondamenti liberal-democratici.
Poco importa che la prescrizione è un motivo di estinzione dei reati che incide per il 10% sui procedimenti arrivati a sentenza (fonte Eurispes, 2019). Poco importa che la Costituzione pretende che i processi siano a misura delle esigenze delle parti, imputati compresi, e non il contrario. L’importante sembra che il processo diventi esso stesso pena, a prescindere da e prima dell’accertamento delle colpe; che la sete di rivalsa che corre in mezzo a un elettorato sempre più rancoroso e diffidente sia appagata dal brandire la spada di una giustizia retributiva capace di spazzare via, con i rei, i sospetti; che in un sistema giudiziario in cui la pena è incerta si anticipino le ragioni distributive della giustizia a un eterno momento processuale.
9 dicembre 2019