Pronti (si fa per dire) a risollevare l'Italia

Con la Grecia, siamo l'unico paese europeo che non è mai tornato ai livelli di Pil pre crisi finanziaria

9 Novembre 2022

Tempi

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Politiche pubbliche

Burocrazia, spesa pubblica, tasse, produttività. Questo governo sarà misurato sull’economia, ma per rilanciare la crescita c’è da smontare un intero sistema. Sarà dura anche solo decidere da dove iniziare

Nell’ultima campagna elettorale la parola d’ordine di Giorgia Meloni è stata: rassicurare. Non si è concessa fughe in avanti su nessun tema: dalla politica fiscale all’immigrazione. Ha anzi pazientemente contenuto le acrobazie verbali degli alleati. Il suo ceto politico ha una storia chiara e ben nota. E tuttavia c’è stato poco “sovranismo” nelle uscite di Giorgia Meloni dell’ultimo anno. Più e più volte in campagna elettorale Meloni ha detto di volere «uno Stato che non deve disturbare chi ha voglia di fare». Il ministro più “segnaletico” del suo governo è l’ex pubblico ministero Carlo Nordio, liberale dichiarato e fautore di posizioni, sulla riforma della giustizia, che in un’altra stagione sarebbero (sono) state bollate come “berlusconiane”. Quali siano le idee del governo Meloni, andrà verificato alla prova dei fatti.

Per ora possiamo solo dire che Meloni cammina su un sentiero in salita, e dei più irti. Il terreno sul quale la sua performance sarà valutata è quello dell’economia: che vuol dire finanza pubblica e compatibilità di bilancio, ma anche rilancio di una crescita da troppo tempo anemica nel nostro paese. L’obiettivo non può essere aumentare il tasso di crescita del Pil l’anno prossimo (cosa che dipende dal caso e al massimo da qualche trucco contabile), ma alzare stabilmente la velocità di crociera dell’economia italiana. Il problema è serio ma non è del tipo che ammetta una soluzione soltanto. Assieme con la Grecia, l’Italia è l’unico paese europeo che, dopo la crisi finanziaria, non sia mai tornato ai livelli di Pil del 2008: nel 2019, il prodotto era del 3 per cento inferiore che undici anni prima. Con il Covid e le politiche di contenimento del virus abbiamo perso 9 punti di Pil, recuperandone in parte l’anno successivo, quando siamo cresciuti del 6,5 per cento: un valore sconosciuto dagli anni Sessanta ma che si spiega, purtroppo, con la logica del rimbalzo, non in ragione di politiche pubbliche che fanno correre stabilmente la nostra economia più forte.

Un paese, due pianeti
Il malessere del paese, che ha trovato negli ultimi anni espressioni elettorali le più diverse (da Grillo a Salvini a, per l’appunto, Meloni), si spiega così. Bassa crescita, bassi salari (in Italia siamo ancora al livello del 1990, quando Giulio Andreotti era primo ministro e Tim Berners Lee non aveva ancora sviluppato il primo server per il World Wide Web), bassa produttività del lavoro. Il tutto in un contesto segnato da divari territoriali pesanti, per cui è difficile disegnare vestiti che vadano bene a tutto il paese. Dal 2010 al 2018, per dire, le esportazioni hanno rappresentato l’unico contributo positivo al prodotto: le altre componenti del Pil decrescevano, l’export compensava. L’Italia delle imprese esportatrici non è quella dei servizi o della pubblica amministrazione, esattamente come il Nord e il Sud continuano ad abitare, economicamente parlando, pianeti differenti.

Liberalizzazioni, queste sconosciute
Che la crescita debba essere la priorità dei governi è più facile a dirsi che a farsi. La crescita (il caso dell’export italiano dovrebbe aprire gli occhi) la fanno le imprese, nella migliore delle ipotesi il governo può “non disturbare chi ha voglia di fare”. Un’agenda per la crescita è in larga misura una non-agenda, una lista di cose che bisogna smettere di fare più che di cose da fare. Nel lessico giornalistico, si chiamano semplificazioni e liberalizzazioni. Appartengono alla cultura politica del centrodestra? In larga misura, no. Balneari, tassisti, farmacisti: Lega e Fratelli d’Italia, ma anche Forza Italia, sono stati i difensori più accesi di queste categorie. La liberalizzazione del commercio è stata avviata dal centrosinistra di Prodi e poi completata dal governo Monti. Il governo Berlusconi è ricordato soltanto per una privatizzazione, quella del monopolio del tabacco, pure avviata dall’esecutivo precedente.

Semplificare non è semplice
Nel contempo, è difficile non vedere che la congerie di norme che oggi grava sull’attività produttiva colpisce sproporzionatamente i gruppi sociali che si identificano col centrodestra: professionisti, partite Iva, imprese piccole e medie. Semplificare non è facile: ci provò il ministro Brunetta, quando era alla Pubblica amministrazione con Berlusconi e non con Draghi premier. Ci proverà Meloni? Il suo partito è oggi il primo nel Nord del paese, dopo anni in cui ha pescato voti soprattutto nel Meridione e nel pubblico impiego. Questo dovrebbe portarla a guardare con particolare attenzione alle istanze dei ceti produttivi. Può davvero pensare di soddisfarle con più spesa pubblica?

Tutti pazzi per lo “scostamento”
In campagna elettorale, sia Meloni che il suo consigliere Maurizio Leo hanno messo in guardia contro i nuovi “scostamenti di bilancio” (eufemismo per deficit) chiesti a gran voce praticamente da tutte le altre forze politiche. Sull’energia, Meloni si trova a dover necessariamente mettere ordine nei sussidi distribuiti dal suo predecessore per qualcosa che assomiglia al 3 per cento del Pil. Dovrà pure, altrettanto necessariamente, scontentare la associazioni datoriali, che sembrano convinte che qualsiasi oscillazione dei prezzi vada messa in conto al contribuente.

La zavorra del debito
Il debito italiano è, come noto, una volta e mezza il Pil, la finanza pubblica negli ultimi anni è stata “allegra”, ai grant del Pnrr l’ultimo governo ha voluto aggiungere il ricorso a prestiti, sia quelli di Next Generation Eu sia altri 30 miliardi di debito addizionale. Spendere i quattrini del Pnrr può essere necessario per non fare brutta figura innanzi ai partner europei, ma non darà ossigeno alla crescita. Nello stesso tempo, il rialzo dei tassi rende più costoso indebitarsi e, per quanto l’inflazione riduca il peso del debito, essa rende anche più difficile immaginare spese addizionali, che avrebbero effetti inflazionistici.

La trincea del reddito
Meloni è stata, con Carlo Calenda, l’unica leader a promettere una riforma del reddito di cittadinanza. Che è molto complicata. Sia perché ci sono due milioni e mezzo di persone pronte a difendere, comprensibilmente, il sussidio del quale godono. Sia perché mentre si pratica il “whatever it takes” per i sussidi energetici è difficile obbligare comunque famiglie a basso reddito a stringere la cinghia.

Occhio al fisco
Sul fisco, Meloni ha calmierato le proposte di flat tax dei suoi alleati, ma dovrà, in qualche modo, fare qualcosa: perché “meno tasse” è la proposta del centrodestra per antonomasia. Idealmente, dovrebbe muoversi in una duplice direzione: da una parte semplificare il sistema fiscale, disboscando le troppe spese fiscali (il che però, in assenza di una riduzione della pressione fiscale, equivale a un aumento delle imposte), dall’altra agire avendo in vista l’aliquota marginale, cioè quella che colpisce gli incrementi di reddito, ai diversi scaglioni dell’lrpef. Per aumentare la produttività, l’aliquota marginale va ridotta, così che le persone siano incentivate a lavorare di più. È questa la logica sottesa all'”appiattimento” delle aliquote. Anche se non si arriva a una flat tax, bisognerebbe averla presente.

Sfida al tabù del merito
In un paese nel quale lo Stato pesa per la metà del Pil, è difficile immaginare una ripresa della crescita senza mettere mano alle inefficienze della pubblica amministrazione. Vaste programme. Meloni potrebbe cercare di fare “una cosa di destra”: ovvero incidere sull’istruzione, come lascerebbe presagire il “merito” comparso a sorpresa nell’onomastica ministeriale. Migliorare la selezione del personale docente, lasciando scegliere ai dirigenti scolastici come impiegarlo e magari anche come valorizzarlo, vale in prospettiva più crescita di qualsiasi gara per le concessioni balneari, ma significa incrociare detentori di poteri di veto ancora più forti.

Il lettore si è accorto che abbiamo toccato tanti, troppi temi. Proprio perché la scarsa crescita in Italia non è frutto di un singolo fattore ma di un sistema politico e istituzionale che dissipa la vitalità della società italiana. Di qui la sfida più complicata di tutte per la nuova premier: scegliere cosa fare, individuare le due o tre battaglie che pensa di poter combattere. E cercare di vincerle.

da Tempi, novembre 2022

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