Le Province! Manco il tempo di inumare col referendum la riforma Renzi e grandinano proposte di rilanciare le «vecchie», care Province. Coi loro presidenti eletti, consiglieri, portaborse e reggipanza. Buon compleanno, Casta. Dieci anni dopo lo scossone dato dagli italiani nella scia dell’inchiesta partita dal Corriere sui costi esagerati della cattiva politica, il primo rigurgito viene su da lì.
Prendiamo il disegno di legge presentato l’11 gennaio da un gruppo di senatori leghisti. Articolo 1: «Il presidente della Provincia e i consiglieri provinciali sono eletti a suffragio universale diretto». Articolo 2: il sindaco e il consiglio delle aree metropolitane pure. Articolo 3: «L’indennità spettante al presidente della Provincia e al sindaco metropolitano…». Come si dice: dritti al nocciolo. Tutto il resto, dalle competenze ai servizi, viene dopo.
Divertente la firma, in calce, del senatore Roberto Calderoli. Nemico sì, a parole, di Roma ladrona, ma così affezionato al Senato da viverci dentro. In un alloggio di servizio.
Una manciata di anni fa, il 13 agosto 2011, era ministro per la Semplificazione con Berlusconi e l’Ansa titolava: «Calderoli, con tutte norme taglio 87.000 poltrone». Bum! E spiegava così la meravigliosa sforbiciata alle Province e ai Comuni: «All’inizio di questa legislatura gli amministratori di Regioni, Province e Comuni erano i 140.000 unità e con i vari interventi, compresa la manovra di oggi, a conclusione dei rinnovi elettorali passeremo da 140.000 a 53.000 con una riduzione di 87.000».
Titolone della Padania sui prodigi del dentista-statista bergamasco e della Lega: «Costi della politica, tagli epocali». Perfino Eugenio Scalfari sentì il dovere di riconoscere: «Di buono nel decreto-schifezza c’è una sola cosa e ci sembra doveroso darne atto: l’abolizione di una trentina di Province e dei relativi Prefetti e Questori, più i loro cospicui “indotti”. E l’accorpamento dei Comuni piccoli e piccolissimi. Era un progetto da tempo allo studio, dall’epoca del governo Prodi del ’96, ma mai approdato in Parlamento. È stato tirato fuori dal ministro Calderoli col forcipe dell’emergenza. Si tratta di una riforma vera e strutturale. Bravo Calderoli». Evidentemente oggi, col reddito pro capite italiano calato rispetto ad allora di altri 6 punti, l’emergenza per i leghisti non c’è più.
I risparmi mancati dei tagli alle Province
Sia chiaro: non è stata solo la Lega, in questi anni, a giocare sul taglio delle poltrone a dispetto delle sfuriate contro il populismo. Ansa, 3 aprile 2008: «Berlusconi torna sulla necessità di eliminare enti inutili a cominciare dalle Province e su quella di ridurre il numero di poltrone politiche. “Dobbiamo eliminare le Province, dimezzare il numero di parlamentari, dimezzare i consiglieri regionali, provinciali e comunali. E così tutti quanti a casa a lavorare». Ansa, 20 giugno 2015, dichiarazione di Matteo Renzi: «Col superamento delle Province abbiamo ridotto il numero dei politici in Italia. Ci sono circa duemila persone in meno che fanno politica di mestiere. Per la prima volta nella storia italiana, insomma, si sono tagliate le poltrone». Sic…
In realtà, ricorda uno studio di Giuseppe Portonera, l’Istituto Bruno Leoni aveva stimato il guadagno di una eliminazione totale delle Province in due miliardi di euro e secondo Maria Elena Boschi la loro semplice decostituzionalizzazione avrebbe fatto risparmiare 320 milioni. Il guaio è che, scommettendo sulla vittoria al referendum che avrebbe sancito l’abolizione, la legge di stabilità 2015 aveva deciso «la riduzione sostanziosa delle risorse a disposizione delle Province, nella forma di un prelievo a favore dello Stato centrale che va da un miliardo di euro nel 2015 a due nel 2016 a tre nel 2017». Risultato: il caos. Unica speranza, che possa servire di lezione: «Le riforme necessitano di un loro ordine, non necessariamente coincidente con la ricerca del facile consenso elettorale. A mettere il carro davanti ai buoi, si rischia di restar fermi».
La megalomania immobiliare
Dimenticate, gente, dimenticate. A dieci anni dallo scossone alla cattiva politica (non alla democrazia o alla politica: alla «cattiva» politica) c’è in Parlamento una «nuova» commissione che pare andare di moda. Quella per il «diritto all’oblio». Che storpia un vecchio spot di Renzo Arbore («meditate, gente, meditate») per accontentare quanti vorrebbero dare una puntina agli archivi. Una proposta di legge sballata, la richiesta di un’autorizzazione a procedere, una rissa in aula con parolacce irripetibili… Fate conto d’essere stati al centro di un’inchiesta per corruzione e di esservela cavata con la prescrizione dopo anni di processi impantanati. Perché mai lasciar negli archivi memoria di quelle brutte cose? Intendiamoci: non è vero che dal 2007 ad oggi non sia cambiato nulla come strilla qualche bastian contrario di professione. Il finanziamento pubblico ai partiti che aveva assunto dimensioni mostruose non c’è più e il finanziamento ai gruppi parlamentari, per quanto qua e là eccessivo, è comunque inferiore. Si è ridimensionata anche la megalomania immobiliare che aveva spinto la Camera ad allargarsi di dependance in dependance fino a occupare in totale 204.212 metri quadri (la superficie di 14 basiliche di San Pietro) pari a trecentoventitré metri a deputato, con canoni moltiplicati per 41 volte rispetto al 1983. Larga parte degli edifici affittati (talora lussuosamente restaurati a spese nostre) sono stati lasciati. E con la restituzione nel 2015 dei soli Palazzi Marini a Sergio Scarpellini, quello che regalò la casa (a sua insaputa?) a Raffaele Marra, Montecitorio risparmia quasi 34,7 milioni l’anno. Nei 18 passati lì (senza avere la proprietà di solo un mattone) ne aveva spesi 625. Quasi il doppio della cifra incassata da Donald Trump per vendere l’hotel Plaza (800 camere deluxe) di New York.
Al ristorante del Senato «lasagnetta al ragù bianco e scamorza affumicata» non costa più solo un euro e 59 centesimi cioè un terzo di un secondo piatto alla mensa dei netturbini di Marghera. Alla buvette della Camera si pagano prezzi (quasi) di mercato e non più pochi centesimi come quando lo straripante Giovanni Alterio detto Poldo (capirete perché) si ingozzò una mattina con 24 panini, 5 crocchette e 3 litri di acqua minerale. I barbieri al Senato non ci sono più e alla Camera sono passati da 7 a 3. Un passo avanti.
Il calo reale in milioni di euro
Insomma, va riconosciuto ai Palazzi di avere avviato davvero, dai e dai, un percorso di maggiore sobrietà. Dal 2007 al 2017 le spese della Camera sono passate da 1.053 a 961 milioni, con un calo in termini reali, cioè tenuto conto dell’inflazione, del 19,2%. Quelle del Senato da 582,2 a 539,5 milioni: meno 18%. Oddio, l’uno e l’altro ramo del Parlamento si tengono ancora larghi sulla dotazione pretesa dal Tesoro, come dovessero avere spese impreviste e qui le sforbiciate sono più leggere. Ma i tagli ci sono. Anche il Quirinale si tiene largo, fermo sulla dotazione 2007. Tuttavia il calo reale è in linea: da 241,6 a 236,8 milioni. Meno 13,2%. Più o meno l’inflazione. E in parallelo è positivo lo sgombero progressivo delle case assegnate agli alti dignitari, il taglio alle «autoblu personali», l’adeguamento al divieto di cumulare nuovi stipendi e vecchi vitalizi, il ripristino dopo mezzo secolo dei concorsi pubblici per le assunzioni, la presentazione sia pure con abissale ritardo nel primo bilancio pubblico triennale, l’apertura del palazzo ai turisti almeno cinque giorni a settimana.
Riconosciuto tutto questo, la callosa resistenza a certe riforme è ancora durissima. A differenza che sul Colle (dove giurano di non essere riusciti a toccare un paio di casi, ma tutti gli altri sì) il tetto agli stipendi fissato da Renzi in 24o mila euro, quanto prende Angela Merkel, è stato «interpretato» dai dirigenti negli altri palazzi a modo loro. Non al lordo, ma al netto. Col risultato che quel tetto alla busta paga lorda si è assestata sui 36o mila euro. Più del doppio, per intenderci, degli stipendi più alti pagati ai massimi vertici della Casa Bianca.
Va da sé che, prima di nuovi tagli, chi poteva si è sfilato. Il numero dei dipendenti alla Camera è passato da 1.839 a 1.170, e al Senato da 1.053 a 651. Quelli che mancano non si sono volatilizzati, ma sono finiti nel mondo delle pensioni dorate. Un paio di dati: il costo di queste pensioni alla Camera è schizzato da 167,2 a 267,8 milioni. Con una crescita reale del 48,1%. E al Senato da 77,4 a 145,9 milioni: +66,7%. Un incubo: il buco nei conti è stato semplicemente trasferito sul futuro. Sulle spalle di chi verrà dopo.
Camera e Senato decidono per sé
È l’autodichia, bellezza. Sulla Camera e il Senato decidono solo la Camera e Senato. Basti dire che lo stipendio di un barbiere anziano è rimasto a 142 mila euro annui: sedicimila più di un giudice di Cassazione. O che mesi fa risulta esser andato in pensione un dirigente, grazie ad esempio al gentile omaggio dei contributi di una legislatura che veniva elargito dai vecchi presidenti, a 53 anni. Ventuno anni dopo la riforma Dini che cambiò tutto per gli altri italiani. Non basta: quel tetto rispettato dai dipendenti a modo loro scadrà alla fine di quest’anno. Dopo di che, se i vertici politici ammaccati e divisi del Parlamento non avranno il fegato di andare allo scontro con il loro potentissimi collaboratori, tutto tornerà come prima. Esempio: la Segretaria generale del Senato Elisabetta Serafin, di euro, ne prenderà 465 mila.
Dicono deputati e senatori: abbiamo tagliato di più noi. Vero. Basta capirci, però. Al contrario di quanto giurava stizzito nel 2012 l’ufficio stampa della Camera e cioè che le indennità «sono pari mediamente a 5.000 euro» perché «la cifra di 11.283,28 euro mensili è riferita al lordo», le cose stanno diversamente. Lo spostamento di soldi dalla parte tassabile a quella esentasse (diarie, rimborsi e prebende varie…) è stato tale che due armi e mezzo fa, nel pieno dello scandalo Mose, Giancarlo Galan, per sostenere di non essere un ladro ma solo un privilegiato in grado di pagarsi un mutuo stratosferico, portò in tivù la sua busta paga: 5.178 nette di indennità più 13.335 di prebende varie esentasse. Totale di quel mese: 18.513 euro.
Forse era un mese speciale e lui era presidente della Commissione cultura. Ma le cifre quelle sono. Confermate, del resto, da tanti grillini che hanno scelto di pubblicare le loro due buste paga parallele. Come ad esempio Laura Bottici che, mostrando le lettere di rinuncia ai gettoni per le riunioni della rappresentanza del, personale, all’indennità di ufficio e all’appartamento di servizio cui aveva diritto, racconta divertita: «Come questore del Senato, quando mi insediai, mi dissero che avevo diritto anche a 140 mila euro l’anno per le beneficenze. Non so se mi spiego: le beneficenze!».
La somma più pesante sulla groppa del Parlamento, però, sono sempre i vitalizi. Ovvio: un euro di entrate, undici di uscite. Che solo adesso cominciano lentissimamente a riequilibrarsi: meno 7,5% reale spesi in dieci anni alla Camera, meno 5,3% al Senato. Contro un crollo quasi triplo del reddito medio degli italiani. Non bastasse, resta intatto il tema più spinoso: si possono sommare ancora più vitalizi (regionale, parlamentare ed europeo) e pure la pensione professionale, oltretutto troppo spesso regalata dai contribuenti, vale per i giornalisti, gli avvocati, i magistrati…) coi contributi figurativi. Una vergogna. «Abbiamo detto agli ex parlamentari che eravamo pronti a fare i conti, per vedere se il ricalcolo del loro assegno al contributivo li avrebbe penalizzati oppure no. Magari qualcuno ci guadagnava… Non ce n’è uno che ci abbia risposto», dice sconfortato il presidente dell’Inps Tito Boeri.
I conti delle Regioni e dei consiglieri
Quanto alle Regioni, pochi flash dicono tutto. 11 numero dei consiglieri inquisiti dalle procure di tutta Italia, ad esempio: oltre 500, la metà circa dei parlamentari locali. Coinvolti anno dopo anno in scandali grandi o pidocchiosi di ogni genere: soldi pubblici usati per comprare un Suv dopo una bella nevicata, offrire un pranzo clientelare a 54 amici, fare la spesa con 24 chili di salame e 14 cotechini, rifornire la cantina con 120 bottiglie di Refosco dal peduncolo rosso, pagare il necrologio della mamma dell’amato capopartito o un giocattolo erotico.
Per quel che riguarda invece le buste-paga, che inizialmente erano state pubblicate su parlamentiregionali.it facendo schiumare di rabbia i rocciosi custodi della privacy, sono state rimosse: uffa, la trasparenza! Ora sul sito, sotto il titolo «Trattamento economico dei Consiglieri» c’è un elenco ipocrita di leggine. Una a caso, l’Umbria: «L.R. 27 dicembre 2012 n. 28. Disposizioni di adeguamento al decreto legge io ottobre 2012, n.174 (Disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate nel maggio 2012), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 dicembre 2012, n. 213». Bella trasparenza…
I compensi lordi e le voci tassate
«Ogni anno i consigli regionali spendono complessivamente circa 1,4 miliardi di euro, di cui almeno 200 milioni per i compensi dei consiglieri in attività (inclusi rimborsi spese e contributi previdenziali e sociali)», spiega nel libro Status quo Roberto Perotti, che ha lavorato alla Spending Review di Palazzo Chigi con Renzi per poi andarsene deluso. «Nel dicembre 2012 il governo Monti impose un tetto ai compensi dei consiglieri regionali: la somma di indennità, diarie e rimborsi a forfait non avrebbe dovuto superare gli 11.100 euro lordi mensili per un consigliere senza altre cariche».
E cos’è cambiato? «Il compenso medio lordo è sceso di parecchio, da 12.793 a 10.210 euro, una riduzione del 20%», ma «in ben nove regioni il compenso netto è più alto nel 2016 che nel 2010!». Solito trucco: basta spostare i soldi dai deputati dalle voci tassate a quelle non tassabili. Tutto qui. Quanto ai vitalizi, ne parleremo ancora. Ma almeno un caso va ricordato: quello di Sabatino Leonetti, subentrato come primo dei non eletti a un collega dimissionario per un altro scandalo. Come certe farfalle, ha volato un solo giorno: il 27 dicembre del 2012. Quando partecipò ad un’unica seduta della Regione Lazio, già sciolta. Da allora, per quell’unica seduta, prende un vitalizio di 3.037 euro netti al mese. Il triplo di milioni di persone che hanno lavorato per decenni nei campi, nelle fabbriche, in miniera. Andate a dirlo a loro che la Casta non c’è più…
Da Corriere della sera, 19 marzo 2017