I numeri non sono ancora chiari, il messaggio invece sì. Usare i risparmi che arriveranno dal taglio delle province per frenare quella stangata occulta che tra addizionali, Imu e via tassando va sotto il nome di imposte locali. Non una promessa generica ma un obbligo da fissare nel disegno di legge che riduce i poteri delle province e le trasforma in assemblee di sindaci, sempre in attesa della loro cancellazione dalla Carta costituzionale. Il cosiddetto ddl svuota province è al Senato, in commissione Affari costituzionali. E la norma anti stangata fa parte del pacchetto di emendamenti presentato dal relatore, il deputato pd Luciano Pizzetti, e concordato con il governo che sarà messo ai voti nei prossimi giorni.
«Nel bilancio di ciascuna città metropolitana e di ciascuna provincia – dice il testo – è istituito un capitolo su cui confluiscono i risparmi conseguiti in attuazione» della riforma. «Tali risorse possono essere utilizzate unicamente per la riduzione dei tribuiti locali e per investimenti».
Di quanti soldi parliamo? L’equazione non è facile da risolvere. Dentro la grande x ci sono di sicuro quei 160 milioni di euro che spendiamo ogni anno per gli stipendi di consiglieri e assessori. Sui risparmi indiretti, invece, la dottrina è divisa in materia. Il ministro per gli Affari regionali Graziano Delrio parla di un miliardo di euro, l’Istituto Bruno Leoni del doppio. Mentre per l’Unione delle province i costi in realtà aumenterebbero. In ogni caso la stangata occulta e locale viaggia su altri ordini di grandezza: 108 miliardi, una cifra più che raddoppiata negli ultimi 15 anni. L’impresa è ardua, quindi, ma almeno si prova ad invertire la rotta. E non c’è solo questo nel pacchetto del relatore.
Si fa marcia indietro sulle città metropolitane, che nell’esame parlamentare erano praticamente raddoppiate. Si torna alle originarie 10, compresa Reggio Calabria che partirà solo nel 2016. Via Brescia, Bergamo, Salerno, via anche le tre venete frutto di fusioni incrociate, come quella fra Treviso e Padova. «L’intenzione – dice il relatore Pizzetti – è evitare che venga snaturata una riforma che vuole semplificare». Con lo stesso obiettivo vengono eliminate le cosiddette province ciambella. Già il nome dice tutto ma per capire bisogna leggere un passaggio del vecchio testo arrivato dalla Camera: nelle province che diventano città metropolitane, se un terzo dei comuni non vuole aderire può uscire e creare una nuova provincia. Stesso discorso per gli enti territoriali dello Stato, dalle prefetture ai provveditorati: ci saranno sei mesi di tempo per presentare un piano di riordino da sottoporre al commissario per la spending review, Carlo Cottarelli. Città metropolitane, province ciambella ed enti territoriali: tre modifiche accennate dal presidente di Confindustria Giorgio Squinzi la settimana scorsa, proprio nel giorno in cui dava l’ultimatum ad Enrico Letta e stringeva la mano a Matteo Renzi.
Tre modifiche sono come tre indizi, fanno una prova. E la riforma delle province sarà un piccolo test per i nuovi equilibri politici che potrebbero arrivare nelle prossime settimane. Resta però da vedere se si farà in tempo a far passare tutte queste modifiche. Gli emendamenti depositati in commissione sono quasi 3 mila, 2.200 solo di Forza Italia, non a caso è stato proprio Matteo Renzi a parlare di «ostruzionismo assurdo». E se il ddl non viene approvato entro febbraio c’è il rischio che a primavera 52 province vadano al voto, affossando per sempre la riforma. In teoria il voto è stato congelato con la legge di Stabilità, ma quella norma non viene considerata a prova di bomba. Ancora una volta, quindi, si corre con il fiatone.
Eppure nella furia della riorganizzazione c’è anche una modifica del relatore in apparente controtendenza. Il sindaco della città metropolitana e il presidente della nuova provincia, scelto fra i sindaci del territorio, non saranno necessariamente a costo zero come previsto finora. Gli statuti potranno prevedere per loro un’indennità. No, non è il ritorno della casta. Ma la semplice costatazione che, senza un minimo di stipendio, una grana del genere non se la prenderebbe nessuno.
Dal Corriere della sera, 11 febbraio 2014