Si tratta di un segnale di debolezza: lo Stato è il primo a non fidarsi della pubblica amministrazione
Agenda digitale, Covid 19, Mose di Venezia, persone scomparse, Inps, bonifica di Taranto, sanità in Calabria, terremoti: questioni e accadimenti che non hanno nulla in comune, se non il fatto di essere stati oggetto tutti di commissariamento straordinario. I commissari straordinari di governo sono figure che, genericamente, vengono istituite per far fronte a specifiche e temporanee esigenze, ma basta questa ampia definizione per giustificare il fatto che nei soli ultimi dieci anni ne sono stati previsti (e talora prorogati di anno in anno) più di 70, cioè più di uno ogni due mesi in media, per le più disparate esigenze?
Non si tratta solo di numeri. Come segnalano i casi citati all’inizio, la consistenza del ricorso a tali organi è anche un tema di sostanza. Il solo ultimo decreto legge approvato dal Governo Meloni ne ha istituiti tre, inaugurando nel genere la specie dei commissari per investimenti PNRR: il primo si dovrà occupare della realizzazione degli alloggi universitari; il secondo, nonostante l’esistenza di una apposita Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, è incaricato fino al 2029 del recupero e la rifunzionalizzazione di tali beni; al terzo sono affidati i progetti di alloggi per i lavoratori del settore agricolo, nell’ambito della lotta al caporalato. Il primo costerà un milione e 400 mila euro, il secondo e il terzo ne costeranno tre.
La continua tendenza all’istituzione di queste figure straordinarie di governo è uno dei tanti segni di disfunzione dell’attività esecutiva. Difatti, solo in un numero limitato di situazioni i commissari straordinari effettivamente rispondono a esigenze di carattere temporaneo e specifico, urgenti o meno che fossero. È il caso dei commissari per le calamità naturali (dai terremoti alle alluvioni al Covid 19), o dei commissari per i grandi eventi (Cortina, Expo, G7, Giubileo).
Nella maggior parte delle ipotesi, invece, la scelta di nominare un commissario risponde a tre esigenze diverse, talora compresenti: sostituire l’ordinaria organizzazione amministrativa in compiti che non riesce a soddisfare, e quindi creare un’amministrazione parallela; consentire l’esercizio di poteri in deroga; poter dire a un’opinione pubblica che si accontenta più delle intenzioni che dei risultati di essersi attivati per risolvere un problema, specie quando non si ha idea di come risolverlo.
Della prima ipotesi fanno parte i commissari nominati non su un presupposto oggettivamente straordinario, ma su quello soggettivo dell’inerzia o dell’incapacità dell’ordinaria amministrazione a svolgere i propri compiti, come sembra nei casi dei commissari, pluri-prorogati, per le persone scomparse o per le vittime di racket e estorsione. Spesso, in questa categoria vi è non solo un’esigenza di intervento surrogatorio della ordinaria organizzazione amministrativa, ma anche una volontà di controllo sostitutivo delle competenze originarie. È la storia dei tanti commissari incaricati di interventi nei territori del Mezzogiorno, per risanare i conti nella sanità territoriale, o per realizzare opere infrastrutturali.
La seconda ipotesi riguarda i casi in cui l’incarico viene conferito all’interno dell’amministrazione competente (o direttamente alla carica politica responsabile), per dotarla di poteri derogatori necessari ad affrontare un determinato problema o accadimento. Anche questo è un segnale di debolezza intrinseca dell’amministrazione ordinaria. Vuol dire infatti che i poteri necessari ad affrontare situazioni particolari (non imprevedibili e non necessariamente eccezionali) non sono disciplinati in via generale, ma ogni volta occorre una legislazione derogatoria specifica. E ad esempio il caso delle ricostruzioni, che attendono da anni un testo unico, o dell’esecuzione di grandi opere.
La terza ipotesi, quella della scelta di nominare commissari per mostrarsi attivi nella soluzione di un problema particolare, ha esiti paradossali laddove, come spesso accade, i commissari vengono prorogati di anno in anno, acclarando quindi l’inefficienza di tale soluzione. Si pensi ai pluridecennali commissari ai rifiuti in Campania e in Calabria o all’emergenza idrica in Sicilia, negli anni Novanta. L’esempio più eclatante resta la gestione commissariale post terremoto dell’Irpinia, che si è protratta per trent’anni. Ancora oggi esiste un commissario per il programma speciale di edilizia abitativa nel territorio napoletano, avviato in seguito a quell’evento.
Ognuna delle tre categorie di commissariamento segnala una chiara alterazione della distribuzione dei compiti, delle funzioni e delle responsabilità amministrative e di governo. A ciò, si aggiunga il fatto che l’attuale esecutivo sembra fare un uso ancor più deciso delle strutture temporanee come strumenti di controllo centralizzato delle funzioni. I tre commissari appena creati nell’ambito della revisione del Pnrr, come si è visto, intervengono in settori della pubblica amministrazione che dovrebbero avere già le competenze per portare a termine progetti e investimenti del Piano. Oltre a loro, il presidente Meloni e il ministro Fitto hanno istituito strutture di missione presso la Presidenza con cui sono stati sostituiti da un lato la rete di commissari per le Zone economiche e speciali e, dall’altro, l’originaria struttura di governance del Pnrr. Con queste unità, la Presidenza del Consiglio ha accentrato ancora di più, sotto il coordinamento di un unico responsabile, la gestione delle Zes e la governance del Piano Nazionale.
Un’amministrazione parallela di commissari straordinari e strutture temporanee è senz’altro funzionale agli interessi del potere esecutivo nella sua interezza: può permettere all’amministrazione ordinaria di scaricare responsabilità amministrative ed erariali; al governo, di esercitare un maggiore controllo sull’attività esecutiva e, soprattutto, di raccontare di aver preso di petto i problemi (salvo dire se li ha poi risolti). Di questa tendenza, l’aspetto tuttavia più significativo è che l’attivismo speso a creare tali organi e uffici è un segno di debolezza dello Stato, il quale in tal modo pare dichiarare di non fidarsi, lui per primo, delle sue strutture ordinarie e della normale distribuzione delle competenze. Ed è proprio questo uno dei principali sintomi di una disfunzionalità ormai parossistica del modello statale a cui siamo sottoposti.
da La Stampa, 19 marzo 2024