3 Febbraio 2025
L'Economia – Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Un paper recente suggerisce che parte delle disuguaglianze di reddito, considerando il complesso della vita attiva delle persone, dipende dal tempo trascorso a lavorare. (…) Le disuguaglianze di reddito, sull’arco della vita lavorativa, si spiegano in parte in conseguenza dell’aver lavorato di più o di meno. Non è un risultato così sorprendente. Sorprendente semmai è che nella discussione contemporanea non entri nemmeno. I suoi protagonisti sono impegnati a ritagliare un abito alla moda addosso a una convinzione talmente radicata che possiamo considerarla alla stregua di un istinto innato. Gli stakanovisti avranno un’idea diversa? Non è detto. Dall’esperienza impariamo molte cose, ma ne traiamo le nostre convinzioni «politiche». Senz’altro chi lavora di più ha in testa di finire di pagare il mutuo, odi cambiare casa, odi mandare i figli a studiare all’estero. Forse però chi lavora di meno non ha preoccupazioni troppo diverse, non è necessariamente appagato. Chi lavora di più lo fa perché si sentirebbe in colpa se non lo facesse, perché ha sviluppato ammirazione per la dedizione al lavoro di altri e tenta di imitarla. E qui che entrano in gioco le propensioni e la cultura delle persone. Questi saggi del Premio Nobel James M. Buchanan (1919-2013) non si soffermano tanto sulle conseguenze positive che una tale cultura (o etica) del lavoro ha per il singolo: su come a uno sforzo maggiore corrisponde non sempre ma spesso un reddito maggiore, a parità di altre condizioni (l’ora di lavoro di un chirurgo ha un valore diverso dall’ora di lavoro di un insegnante). Buchanan riflette sulle conseguenze sociali dell’etica del lavoro. Su come finisce per arricchire non solo il singolo, ma tutta la società.(…)
L’interesse per i temi al centro di questi saggi trae origine da un episodio tutto sommato ordinario. Una domenica Buchanan voleva vedere le partite dei play off di football ma si sentiva in colpa «all’idea di starmene seduto su un divano per quindici ore in due soli giorni». Non è che ha un saggio da consegnare e teme di non farcela, se non vi dedica quelle quindici ore. La questione è diversa. Tant’è che la risolve ricordandosi di aver raccolto delle noci, e gli viene l’idea di «prendere alcune scodelle, uno schiaccianoci, un martello e un vecchio ferro da stiro da tenere in grembo e di rompere i gusci mentre guardavo la televisione per ore». Tanto basta a farlo stare meglio. «Provavo un sincero senso di colpa di fronte alla prospettiva di un ozio quasi totale, senso di colpa che sempre mi accompagna in simili circostanze, e che però scomparve rapidamente non appena mi misi al lavoro, sia pure un lavoro affatto diverso dalle mie attività consuete». Riflettendoci, Buchanan ne deduce di essere mosso da un principio morale, probabilmente instillato in lui dall’essere cresciuto «in un ambiente presbiteriano scozzese-irlandese, in pieno Tennessee». Quando parla di «etica del lavoro», egli non intende altro che una condizione interiore che coincida con questo sentirsi in colpa del singolo, se ozia quando potrebbe lavorare.(…)
Mettersi ad aprire le noci durante la partita non è anacronistico? L’imperativo di non star “mai coi man in man” non è l’eco lontana di un’abitudine invalsa in un’economia di sussistenza, che pertanto «non ha pertanto senso né valore nella complessa economia moderna»?(…). Buchanan sottolinea come l’offerta dei fattori produttivi in un’economia è stabile solo per ipotesi. Si sbaglia a far coincidere l’offerta di lavoro con il numero di individui che formano la forza lavoro; essa è invece influenzata dalla libera scelta di lavorare di più e di meno. L’offerta di lavoro può aumentare, anche a popolazione costante, se la gente sceglie di impegnarsi di più nel lavoro. Tale scelta è diversa dalla «preferenza genuina» del singolo, che è tendenzialmente per l’ozio: «Un’economia in cui tutti lasciano che le loro “preferenze genuine” dettino la scelta tra lavoro e non lavoro non sarà efficiente». Questo perché interviene una esternalità: «La scelta del singolo di lavorare di più giova ad altri; la sua scelta di lavorare di meno produce danni esterni agli altri. Lavorare più sodo va a vantaggio di ciascuno; oziare danneggia tutti». L’etica del lavoro, l’inquietudine personale che ci suggerisce che lavorare è bene e oziare non lo è, «può essere considerata lo strumento con cui “interiorizziamo l’esternalità scelta del lavoro”. In un modo o nell’altro, in modi che sicuramente non comprendiamo, un lungo processo di evoluzione culturale può averci inculcato una norma etica che in effetti ci avvantaggia, vale a dire che siamo più prosperi con l’etica del lavoro che senza. La nostra prosperità economica è accresciuta dalla presenza di vincoli etici al comportamento». Se anche collaborare a una divisione del lavoro più complessa produce benefici per tutti, uomini e donne non vi entrano sulla base di un calcolo razionale. L’importanza dell’etica del lavoro risiede precisamente nel suo non essere il risultato di un accordo.
«Non esiste un quid pro quo, come nello scambio politico o economico. Ogni membro dell’economia è reso economicamente più ricco dal maggior lavoro o risparmio altrui, e questo vale per tutti: ma non è inevitabile che, se gli altri risparmiano di più o lavorano più sodo, mi dovrò adeguare». (…) La politica è una specie di fabbrica di succedanei. La legge non è però un buon surrogato dell’etica, il rischio di una sanzione non ha lo stesso peso della vergogna per qualcosa che si è fatto. Obbligare le persone a risparmiare (per una pensione) ha sicuramente portato a erodere l’etica del risparmio, il dovere del lavoro in Unione Sovietica si accompagnò alla perdita completa del senso del lavoro ben fatto.
E quindi: se l’economia di mercato ha bisogno di una «cultura», di un atteggiamento diffuso per cui le persone si sentono in colpa quando sono in ozio o di un ampio riconoscimento del valore positivo del risparmio, che ne sarà dell’economia di mercato man mano che queste «virtù» cominciano a sembrare anacronistiche?