Forse è colpa di Kant. Al liceo, anche se non studiavamo tanto, abbiamo imparato che le persone per bene trattano gli altri «come fini, e non come mezzi». Le immagini che ogni giorno entrano nelle nostre case, a cominciare dalla foto di Aylan, ci rammentano che riconoscere la dignità di ogni singolo individuo è un’abitudine recente e precaria, nella storia dell’umanità.
In realtà il saggio di Königsberg esortava a trattare «ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine, e mai unicamente come mezzo». Non gli sfuggiva, cioè, che noi tutti ci serviamo gli uni degli altri – anche – come dei mezzi. Sfruttiamo il gelataio come mezzo per avere un gelato, il carrozziere per riparare le ammaccature alla nostra auto, il cardiologo per avere un cuore in salute.
L’emozione, lo sconforto, il senso di empatia per chi attraversa una fase tanto dura della propria esistenza, ci fanno pensare ai migranti come potenziali beneficiari della nostra carità. Ci dividiamo fra quelli che credono che la solidarietà debba essere esercitata soltanto all’interno della nostra tribù allargata, lo Stato nazionale, e quanti coltivano un umanitarismo senza frontiere. La seconda è un’opzione un po’ più civile, ma la prima riflette sentimenti molto profondi.
Angela Merkel ha dato una lezione a tutt’Europa proprio perché ha evitato di lasciarsi trascinare in questo dibattito. Ha considerato i migranti non solo come dei fini: ma anche come dei mezzi. Mezzi per raggiungere un obiettivo che è lo stesso, loro e nostro, cioè vivere in una società più prospera.
Nel 2050 si stima che l’età mediana in Europa sarà di 49 anni. Nei territori dell’Unione Europea i ragazzi al di sotto dei quattordici anni erano all’incirca 100 milioni nel 1975: dovrebbero arrivare a 66 milioni nel 2050. Secondo le proiezioni Eurostat, la quota della popolazione europea sopra gli 80 anni sarà il 6,3% nel 2025 e l’11,4% nel 2050.
Si riduce la natalità, dopo che nell’ultimo secolo abbiamo praticamente sconfitto la mortalità infantile e ridimensionato la mortalità in età attiva.
Saremo meno e vivremo meglio e più a lungo? Se la ricchezza fosse una torta, per cui la dimensione delle fette dipende dal numero di commensali, ci sarebbe da festeggiare. Nel corso degli ultimi trecento anni, abbiamo imparato che non è così. Il mondo forgiato dalla rivoluzione industriale ha visto andare di pari passo aumento del reddito pro capite e crescita della popolazione. «Progresso» è precisamente questo: più pane mentre aumentano le bocche da sfamare. Se le nostre condizioni di vita sono tanto migliorate, è anche perché crescita demografica e urbanizzazione – più persone e più persone che vivono assieme, che scambiano, che si mettono in condizione di dipendere gli uni dagli altri – sono state una importante leva di sviluppo.
Più persone sono «più mezzi»: significano una maggiore domanda di mercato per beni e servizi diversi. Rappresentano sorgenti di creatività, di voglia di fare, di intraprendenza.
In un’Europa che invecchia, i migranti sono un’iniezione di gioventù. L’apporto dei «nuovi europei» sarà utile a tappare le falle del nostro Stato sociale, messo in crisi dall’innalzamento della speranza di vita.
E’ chiaro che non ci sono solo opportunità, ma pure problemi. E’ difficile amalgamare culture e religioni diverse. In una società complessa, in cui il capitale umano è cruciale, i talenti vanno coltivati: è probabile che la diseguaglianza più rilevante sarà sempre più quella fra chi ha avuto accesso a una buona istruzione, e chi invece non l’ha avuto, a dispetto delle pretese egualitarie della scuola pubblica.
Il primo ingrediente di un’economia che cresce sono donne e uomini che desiderano costruirsi un futuro migliore. Aprendo le porte a 800 mila profughi, Angela Merkel non si è candidata alla sanità. Ha fatto un investimento.
Da La Stampa, 8 settembre 2015