Quel che la retorica politica non dice sulla protesta dei pastori sardi

Tacitare la minoranza organizzata a spese della maggioranza silenziosa non ha mai danneggiato un governo

21 Febbraio 2019

Forbes

Massimiliano Trovato

Argomenti / Teoria e scienze sociali

La prolungata mobilitazione dei pastori sardi contro il calo del prezzo del latte ovino continua a riscuotere un supporto unanime. Dopo il sostegno espresso sin dalle prime ore della protesta da alcuni calciatori, al corteo si è accodato anche il mondo dello spettacolo: sfoggiando un bikini fiammante, una modella nuorese si è immersa in mille litri di latte, splendidamente remunerato a 1,50 euro al litro; e il conduttore Massimo Giletti ci ha innaffiato il pavimento dello studio di “Non è l’arena”, in ideale condivisione delle traversie degli allevatori.

Altrettanto univoca la risposta della politica: se il ministro dell’Interno Salvini è stato il più lesto a intercettare le ragioni dell’iniziativa, anche le opposizioni – da Martina a Tajani – si sono schierate con i pastori, sottoscrivendone le rivendicazioni. Che tanta solerzia abbia almeno in parte a che fare con l’imminente scadenza elettorale – domenica la Sardegna si recherà alle urne per rinnovare il governo della regione – è una conclusione sin troppo ovvia, ma questo non spiega il vastissimo consenso che la protesta raccoglie presso il pubblico, che dal voto sardo non si attende alcun tornaconto.

Dove termina l’opportunismo, comincia l’empatia. Sia chiaro: parteggiare per chi lotta, in modo alquanto letterale, per la propria sopravvivenza è una reazione umanissima e commendevole: i pastori meritano tutta la nostra comprensione – il che non implica, sfortunatamente, che la meritino anche le loro tesi. La protesta si regge sul duplice assunto che esista per il latte un giusto prezzo, superiore al costo di produzione e indipendente dalle condizioni di mercato, e che sia questo a dover determinare il prezzo del formaggio.

Si tratta di una ricostruzione funzionale a un’altra umanissima tentazione: quella d’individuare un colpevole (nella specie, i produttori di pecorino o l’ubiqua grande distribuzione). È, però, una ricostruzione fallace: non solo perché è, viceversa, il prezzo del prodotto finale a determinare quello della materia prima – come implicitamente ammesso dal governo, che, per risollevare la quotazione del latte, si appresta a ritirare dal mercato 67 mila quintali di formaggio – ma anche perché presuppone che gli allevatori debbano operare sotto una campana di vetro, senza alcuna riguardo all’andamento del mercato. A questo servono i prezzi: a veicolare le variazioni della domanda e dell’offerta e a quantificare la scarsità e l’utilità di un prodotto, cioè a mostrare se sia sensato continuare a produrlo.

Si obietterà che l’agroalimentare ha principi peculiari, che tengono conto degli ingenti costi fissi e delle fluttuazioni inevitabili. Questo è senz’altro vero e tali specificità informano l’organizzazione del settore: ma occorre evitare di confondere oscillazioni momentanee e tendenze strutturali. Quello del pastore è un lavoro ingrato e l’idea che non basti a garantire nemmeno la semplice sussistenza frustra un istintivo senso di giustizia: tuttavia il vero tema di cui discutere è se l’attuale assetto della filiera sia ancora sostenibile.

Invece di stimolare un confronto su questo profilo – sulla dimensione ottimale degli allevamenti, sulle modalità di produzione più efficienti, sull’opportunità di promuovere il pecorino (soprattutto all’estero) come un prodotto d’eccellenza, anziché come un formaggio di bassa gamma esposto alla concorrenza mondiale… – la maggioranza ha scelto la strada della protezione: un prezzo politico per il latte e un caveau di formaggi al Viminale. Anche in questo caso, il calcolo è piuttosto trasparente: tacitare la minoranza organizzata a spese della maggioranza silenziosa non ha mai danneggiato un governo.

Danneggia, però, il paese – senza, peraltro, risolvere il problema. Oltre ai circa 44 milioni stanziati, contribuenti e consumatori dovranno sopportare l’aumento del costo del formaggio: un rincaro forse trascurabile, se spalmato (meglio: grattugiato) su milioni di famiglie, ma pur sempre un rincaro. E quando l’effetto di questa manipolazione si esaurirà, i problemi del settore riemergeranno. Paradossalmente, regalare la stessa somma agli allevatori – magari a patto che ne impieghino una parte per rinnovare o riconvertire le proprie attività – sarebbe un’opzione più vantaggiosa per il benessere sociale.

Si chiede invece la tutela a ogni costo dell’interesse particolare contro l’interesse generale. È la stessa ratio del reddito di cittadinanza, della ripubblicizzazione di Alitalia, della restaurazione delle chiusure domenicali, dei risarcimenti ai soci delle banche venete; bandiere di una politica che rinuncia a un’idea, anche approssimativa, di sviluppo e si limita a sfornare un Postalmarket dei privilegi, trasformando ogni cittadino in un mero percettore di prebende. George Bernard Shaw scrisse saggiamente che «un governo che ruba a Pietro per dare a Paolo potrà sempre contare sul supporto di Paolo»: neanche lui poteva immaginare che – ruba oggi, ruba domani – prima o poi i Pietro sarebbero finiti.

da Forbes, 20 febbraio 2019

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