Quel silenzio spezzato dall’illusione dei bonus

L'approvazione di una serie di bonus spezza l'approccio fin qui tenuto dal governo al tema lavoro in modo poco opportuno

2 Maggio 2024

La Stampa

Serena Sileoni

Argomenti / Economia e Mercato

Per mesi, il lavoro è stato un tema fuori dal radar della politica. Scelta comprensibile: l’Italia è uscita dalla pandemia con una crescita costante e accentuata dell’occupazione e, in particolare, dell’occupazione permanente. Un ottimo motivo per non doversi preoccupare di una materia che ha sempre mostrato grandi fragilità. Un motivo ancora più buono per un governo che si è insediato esprimendo l’idea che la miglior politica occupazionale è lasciare i cittadini e le imprese liberi di lavorare. Anche in coerenza con questa idea, Meloni e i suoi ministri si sono interessati alla politica fiscale, con interventi a beneficio dei redditi più bassi (da cui lo sforzo per la riduzione delle aliquote e il finanziamento del taglio al cuneo) più che alle politiche del lavoro. Per queste, il governo si è limitato a un intervento al margine quale l’abolizione dell’Anpal e a una decisione importante ma tangente, quale l’abolizione del reddito di cittadinanza. A quest’ultima, in particolare, il presidente Giorgia Meloni ha attribuito l’effetto benefico sui dati occupazionali, ma è chiaro che i buoni risultati non dipendono solo da questo.

L’approvazione alla vigilia del Primo maggio di una serie di “bonus”, così definiti dallo stesso governo, spezza questo approccio in sordina al tema lavoro, ma non in modo opportuno.

In particolare, è chiaro che il bonus 100 euro, illustrato in conferenza stampa dal sottosegretario Leo tra le misure di attuazione della riforma fiscale, serve a far parlare di una misura simbolica a favore dei lavoratori nel giorno della loro festa. Ma è una misura molto meno determinante delle scelte di politica fiscale fatte fino a questo momento.

Lo stesso viceministro ha spiegato che il bonus è un primo modo per «venire incontro ai dipendenti con redditi meno elevati», per consentire loro di «comprare un regalo a un figlio». Dicendo ciò, si è mostrato consapevole che non sono queste regalie a cambiare le cose, qualsiasi cosa debba essere cambiata.

Torniamo ai dati sull’occupazione.

Per numero di occupati, ore lavorate, tipologia di contratti, distribuzione di genere e sul territorio i numeri non sono mai stati così buoni. Ma non bastano a diagnosticare la buona salute del nostro mercato del lavoro. I salari restano bassi, e ci restano da almeno trenta anni, mentre negli ultimi due l’inflazione ha allargato la distanza fra questi. Inoltre, la scarsa produttività continua a caratterizzare, anche in chiave comparata, il nostro sistema economico: con tassi di occupazione nella media europea, la produttività del lavoro è di gran lunga inferiore alla media dei paesi dell’Unione.

Le imprese in Italia sono propense a spendere per pagare i salari, ma non riescono a farlo per innovare e investire, in capitale sia materiale che immateriale. Questo non aiuta i lavoratori a essere più produttivi e a lavorare bene, anche in termini di sicurezza. E il segno forse che gli imprenditori non si fidano nel ritorno degli investimenti. Ma vuol dire anche che non riescono a pensare in termini di progettualità.

Un altro elemento da considerare è il calo costante dei lavoratori autonomi. Parlare di autonomi il primo maggio, per la sua origine e per il modo in cui esso è celebrato, è mescolare il diavolo con l’acqua santa. Però, la dignità del lavoro autonomo non è da meno di quella del lavoro dipendente. Potremmo quindi anche oggi chiederci cosa significa se dalla crisi del 2008 in poi gli autonomi sono sempre meno. Una motivazione è che le false partite Iva sono state assorbite dal lavoro dipendente, sanando rapporti di mono-committenza. Ma può voler dire anche, e in parte, che gli italiani non riescono più rischiare, che è la condizione essenziale del lavoratore autonomo. Il posto da dipendente pubblico, nonostante i blocchi del turn over, resta una meta ambita anche dai giovani, o almeno di quelli che vogliono rimanere in Italia.

I dati che fanno da contorno ai numeri sull’occupazione mostrano allora il lato nascosto delle buone notizie. Ci parlano di un’occupazione senza crescita, uno dei tanti aspetti di un paese senile, dove il lavoro c’è più di ieri – ed è un’ottima notizia – ma non si collega a una fiducia e a una speranza che sono attitudini necessarie per valorizzare il buono che abbiamo.

E come se, anche nel mercato del lavoro, avessimo smesso di guardare avanti, di voler competere, se si vuol dire così, e ci accontentassimo di prolungare la nostra esistenza. Anche in questo settore, mostriamo una staticità che è la stessa che mostrano le nostre città, incapaci di ringiovanire, rinnovarsi, guardare oltre l’orizzonte ristretto della sopravvivenza e della conservazione.

In una parola, pure il mercato del lavoro mostra una senescenza di cui l’aspetto demografico non è l’unica causa. Concause ne sono proprio le politiche dei (super)bonus, una spesa pubblica di cui voci determinanti sono pensioni e stipendi pubblici, una politica sindacale che ancora oggi non riesce a immaginare altro che non sia un referendum sui licenziamenti e la precarietà. Se si guardasse, invece, con attenzione diversa al mondo della scuola e della formazione, con minor paura ai fenomeni immigratori, con più razionalità e consapevolezza a quel concentrato di innovazione e retorica che è l’intelligenza artificiale potremmo smettere di rappresentare l’anomalia di un paese dove si lavora, sì, ma senza grinta morale e spinta economica.

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