21 Settembre 2020
La Provincia
Carlo Lottieri
Direttore del dipartimento di Teoria politica
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Il modo in cui è stato realizzato il Regno d’Italia non ha rispettato tante peculiarità regionali e ha creato lo squilibrio cronico tra Nord e Sud. Non a caso Cattaneo e Gioberti propendevano per l’assetto federale. L’Ue eviti lo stesso errore
Non è facile fare i conti con il Risorgimento e, più in generale, con quel lungo processo di unificazione lungo quasi un secolo: dai moti del biennio 20-21 del secolo diciannovesimo fino al termine della Prima guerra mondiale, che porterà Trento e Trieste entro i confini italiani. E se da un lato davvero non si può accettare in termini acritici la narrazione che considera necessaria la costruzione dello Stato nazionale italiano, al tempo stesso sarebbe ingeneroso non riconoscere le idealità di molti tra quanti presero parte a quella vicenda. Per giunta, quello avviato da Silvio Pellico, Carlo Cattaneo e Daniele Manin e molti altri fu essenzialmente un processo “indipendentista”, che voleva separare da Vienna alcune aree della penisola.
In fondo, chi si mise in gioco per sottrarre Milano e Venezia dal dominio degli Asburgo nutriva gli stessi valori che avevano portato Lord Byron ad andare in Grecia per sostenere quella lotta di liberazione: voleva che ogni popolo si governasse da sé. Per di più, nella prima fase (grosso modo fino al 1848) il Risorgimento è innanzi tutto animato dalla speranza di costituzionalizzare il potere sovrano: limitando l’arbitrio dei governanti e ponendo garanzie a tutela dei singoli. Purtroppo, l’esito in larga misura sarà deludente, dato che con il tempo si affermerà un’idea assai diversa di libertà.
La ragione è che a metà Ottocento in Italia e non solo la cultura liberale cede ad altre visioni. Quella che si viene ad affermare è una visione nazionalistica che non si limita a pretendere che ogni universo culturale si possa governare autonomamente, perché punta a realizzare una totale identificazione del singolo con la propria comunità linguistica, ponendo pure le premesse per politiche aggressive e logiche protezionistiche. Negli stessi anni che vedono l’unificazione italiana, la Prussia realizza il sogno del Secondo Reich, mentre in Nord America le armate di Abraham Lincoln pongono fine alla Confederazione sudista e in tal modo cancellano lo spirito autenticamente contrattuale che era stato alla base dell’esperimento federale statunitense. Per di più, quando nel 1870 i bersaglieri entrarono a Porta Pia e annichilirono lo Stato Pontificio fu chiaro a tutti che un’unificazione di quel tipo comportava una crescente limitazione della possibilità d’azione della Chiesa, già penalizzata dall’esproprio dei beni ecclesiastici e dalla soppressione di molti ordini religiosi.
Pure l’Italia fece insomma l’esperienza di un suo Kulturkampf anticattolico e la ragione di tutto ciò risiede nel fatto che gli ideali risorgimentali spesso assunsero tratti quasi “mistici” (basti pensare alla predicazione di Giuseppe Mazzini) fatalmente destinati a entrare in conflitto con la religiosità delle popolazioni italiane.
Ideali e interessi
Non bastasse questo, il progetto ideale volto a unificare l’Italia fu spesso la copertura di interessi poco nobili. Ogni cambio di regime comporta occasioni di arricchimento e quanto avvenne in Italia non fu da meno. Soprattutto, non si capisce nulla di quanto è avvenuto nel diciannovesimo secolo se si trascurano le ambizioni di Vittorio Emanuele II e del suo gruppo di potere, che volevano uscire dagli angusti confini di una potenza regionale per giocare le loro carte sullo scacchiere internazionale: come in effetti potrà succedere a unificazione realizzata, anche grazie ai progetti di conquista coloniale.
Quello che vi era di nobile e libertario agli albori del processo risorgimentale fu insomma tradito a più riprese: nella violenza usata contro le popolazioni meridionali durante l’occupazione, nell’imbroglio imposto al Veneto grazie a un plebiscito truffaldino, nell’umiliazione inflitta alla Chiesa e quindi anche alla grande maggioranza della popolazione.
I federalisti
Per giunta i migliori spiriti del tempo in Italia e fuori avvertirono chiaramente che la penisola italiana avrebbe negato se stessa se avesse sposato l’unità contro il pluralismo, la centralizzazione del potere contro l’autogoverno locale. Per questo avrebbero voluto un assetto federale cattolici come Gioberti e Rosmini, laici come Cattaneo e Ferrari, e perfino un socialista come Pierre-Joseph Proudhon, persuaso che l’identità multicolore dell’Italia fosse irriducibile alle logiche prefettizie e giacobine.
Prodotto ideologico e in larga misura artificioso, il Risorgimento e la sua retorica nazionalista hanno poi avuto un ruolo non secondario nel trascinare gli italiani nella catastrofe della Prima guerra mondiale (vissuta come la Quarta guerra d’indipendenza) e, di conseguenza, nel favorire lo stesso avvento del regime mussoliniano. Se è una grave responsabilità italiana dinanzi all’Europa avere generato il fascismo e avere posto le premesse pure per il nazismo, molto si deve proprio alla costruzione di una nazione fittizia che è stata edificata cancellando la specificità di universi cittadini e regionali da Napoli a Venezia, da Siena a Milano, da Roma a Palermo, da Firenze a Trieste che per secoli avevano costruito la propria grandezza tenendosi lontani da ogni modello unitario, “francese” e burocratico.
Quanto è accaduto in Italia nell’Ottocento deve allora essere tenuto presente quando si pensa all’Europa e alle tensioni che oggi conosce: perché se è vero che gli attuali Stati sono indifendibili, è altrettanto chiaro che non possono essere buone istituzioni quelle che alcuni a Bruxelles intendono imporre a tutti, trascurando ogni differenza e ogni rivendicazione di libertà. Sotto vari punti di vista, l’opposizione causata dalle politiche della Bce tra un’Europa settentrionale “virtuosa” e una meridionale “assistita” ricorda da vicino dibattiti ben noti agli italiani; e quello che si sta rischiando è una riformulazione a livello continentale di quel rapporto malato tra Nord e Sud che ben conosciamo in Italia (dove il primo è penalizzato dalla redistribuzione e il secondo è vittima di politiche che danneggiano il beneficiario ancor più che il finanziatore).
L’esempio elvetico
L’Italia era già culturalmente unita, da tanti punti di vista, ben prima che Vittorio Emanuele si proclamasse Re d’Italia: e oggi comprendiamo che non aveva bisogno di essere unificata politicamente, dato che anzi avrebbe tratto enormi benefici da un assetto più “elvetico”. Un discorso analogo, con ogni probabilità, potremmo farlo adesso per l’intera Europa, che in fondo è un’Italia in grande, capace di trarre la propria identità dalla varietà delle culture e delle istituzioni che la compongono.
Da La Provincia, 20 settembre 2020