Quelle spinte per avere più risorse

Nord e Sud hanno problemi diversi, le stesse soluzioni non possono andare bene per entrambi.

21 Ottobre 2017

La Stampa

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Il Pil del Nord è il 96% di quello che era nel 2007, prima della crisi; quello del Sud, l’88%. Le diverse regioni del nostro Paese hanno da sempre una diversa velocità di crociera, non è una novità di questi anni. Quando cadde il muro di Berlino, il PIL pro capite della Germania Est era poco più di un terzo di quello della Germania Ovest: oggi è all’incirca i due terzi, il divario si è ridotto. Il Pil pro capite nell’Italia meridionale, più di 150 anni dopo l’unificazione, è il 55,8% di quello del Centro Nord. Il fenomeno non è nuovo e non fa notizia. Eppure se Lombardia e Veneto desiderano più autonomia, è proprio per questo fatto eternamente presente e eternamente sottaciuto della politica italiana.
La globalizzazione ha accorciato le distanze, consente di conoscere meglio le esperienze di Paesi diversi, mette le imprese sotto la pressione della concorrenza internazionale. E’ normale che venga l’ambizione di imparare da esperienze di successo: rispetto a come sono gestiti alcuni servizi pubblici, per esempio. Davvero si può dare torto ai veneti se pensano, per esempio, che avendo più voce nella gestione delle scuole riuscirebbero a progettare percorsi coerenti con la domanda delle imprese del territorio? O ai lombardi se credono che saprebbero valorizzare meglio i propri beni culturali, facendone un piccolo volano di innovazione?
L’articolo 116 della Costituzione prevede un iter per il quale lo Stato potrebbe attribuire alle Regioni ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia. Il processo prevede una negoziazione complessa, già deragliata in passato nel caso di Lombardia, Veneto ma anche di Piemonte, Emilia Romagna e Toscana.
L’obiettivo del voto di domani è rendere l’istanza delle Regioni più difficile da ignorare, grazie al sostegno popolare. Ciò che il referendum non farà è risolvere la madre di tutte le questioni: quella delle risorse. La riforma «federalista» della Costituzione, voluta dall’allora centro-sinistra, risale al 2000. Eppure, «ancora nel 2012, come nel 2001, i livelli di governo locale in Italia per ogni euro speso incassavano meno di 50 centesimi» (Corte dei Conti). In quella Spagna da cui la Catalogna cerca di secedere, i livelli di governo locale per ogni euro speso nel 2012 incassavano 72 centesimi. Lo stesso avveniva in Germania.
Il federalismo, per essere degno di questo nome, deve consistere in un ribaltamento della piramide fiscale. In Italia è il centro che raccoglie le imposte e poi distribuisce quattrini ai livelli di governo più bassi, per finanziarne la spesa. In un regime autenticamente federale, le cose andrebbero al contrario.
Il vantaggio è soprattutto la maggiore trasparenza. E’ più facile maturare un pensiero circa il modo in cui si stanno comportando i nostri amministratori, se possiamo osservarne da vicino l’operato. Sul territorio, i cittadini riescono meglio a identificare le spese scriteriate e, di conseguenza, le tasse irragionevoli.
Rafforzare una dimensione politica che aiuti a valutare meglio i governanti è un vantaggio per tutti. In democrazia, dobbiamo decidere se confermare al potere chi già c’è, e un po’ conosciamo, oppure cambiarlo con chi è oggi all’opposizione, e non abbiamo idea di come si comporterebbe. Se chi è all’opposizione a Roma governa invece a livello locale, e se si riesce a capire come lo sta facendo, forse disponiamo di qualche elemento in più per fare la nostra scelta. E’ difficile scommettere sul referendum. La campagna elettorale è stata in tono minore, e non è detto che gli elettori si rechino alle urne. In caso vincesse l’apatia, però, sarebbe miope cavarsela biasimando la mossa avventata di Maroni e Zaia. Nord e Sud hanno problemi diversi, le stesse soluzioni non possono andare bene per entrambi. Non facciamo finta di non saperlo.

Da La Stampa, 21 Ottobre 2017

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