La storia è fatta di eventi, ma ha bisogno di miti e riti. Quando non si riesce a fare i conti con il passato, è perché realtà e rappresentazione viaggiano su binari diversi.
I riti del 25 aprile sono anche quelli di una canzone – Bella ciao – di cui si è appropriata la sinistra ma che i partigiani non cantavano. I miti sono quelli di un intero popolo consapevole dell’oppressione subita e compatto nel combatterla, dalla parte giusta della storia. La realtà fu una guerra civile di cui la maggior parte degli italiani fu semplice spettatrice e che gli storici iniziarono a chiamare con questo nome solo all’inizio degli anni Novanta, con la meritoria opera di Claudio Pavone. Miti e riti del 25 aprile sono i segni di un conflitto continuo tra una sinistra che rivendica solo per sé i meriti della liberazione dal nazifascismo e quella di una destra incapace di ripudiare con fierezza ogni legame, fosse anche il più flebile, col fascismo, al punto da dubitare del valore della Liberazione e della Resistenza.
Se si potesse riavvolgere il nastro degli ultimi giorni, questo sarebbe potuto essere il 25 aprile di una più modesta, ma non meno importante ai giorni nostri, liberazione da questa consunta lotta.
Sarebbe bastato che Scurati avesse potuto pronunciare il suo discorso. La meschinità del regolamento sulla par conditio voluto dal governo la scorsa settimana, la scomposta gestione delle reti televisive pubbliche, l’incapacità di recidere forte e chiaro ogni legame di valori e simboli col fascismo sarebbero evaporati di fronte a un dato di realtà. Se è vero che il fascismo, come ogni forma di autoritarismo, si basa sulla eliminazione del dissenso, la lettura in casa Rai avrebbe di per sé smentito un altro mito, quello di un regime mai morto, del fantasma del Ventennio che incombe, di vittime di oggi – Scurati per primo, a questo punto – affiancabili alle vittime di ieri.
Però la storia non si fa coi se. E il 25 aprile anche quest’anno sarà una sorta di prosecuzione di guerra civile disarmata, nell’indifferenza generale dell’opinione pubblica, nella lontananza spirituale dei giovani e nell’ignoranza storica dei più. Ed è, per tutti, un vero peccato. Anzi, un vero tradimento alle origini democratiche della nostra Repubblica.
La più grande incompiuta della nostra Costituzione, che della Liberazione fu il frutto, è non aver mantenuto quella promessa di unità e rappacificazione politica su cui è nata e di cui avrebbe dovuto rappresentare un punto di partenza. Liberati dalla violenza, dalla paura, dall’oppressione materiale e spirituale, non ci siamo liberati dalla lacerazione intellettuale. Negli anni, intorno al 25 aprile è proseguito, seppur con armi diverse, quello scontro che già aveva diviso l’Italia dopo l’armistizio. Alcune ragioni sono risalenti: l’amnistia di Togliatti e la mancata epurazione della dirigenza fascista dall’amministrazione repubblicana impedirono di prendere le distanze dal nemico, operazione necessaria per una riconciliazione collettiva. Altre ragioni sono più recenti e legate alla storia politica della Seconda repubblica, con la fine della Democrazia cristiana e quindi il consolidarsi del monopolio storico dell’antifascismo a sinistra, e l’emersione di una destra che, ora più che mai trovandosi al governo, non deve avere esitazioni e omissioni di sorta rispetto al passato.
Ma è proprio questa incompiuta unità a rappresentare il più grande tradimento degli anni di Liberazione e ricostruzione e di quanti – partigiani, alleati, militari abbandonati al loro destino e gente qualunque – la vissero. La realtà dell’impegno unitario del Comitato di liberazione nazionale divenne la realtà del compromesso costituzionale. La generosità e lo slancio inebriante del primo divennero tentativo di unità e lungimiranza del secondo. Fu così che l’ex partigiano e padre costituente Dossetti disse che la Costituzione viene «da un grande fatto globale, cioè i sei anni della seconda guerra mondiale». E «si può ben dire nata da questo crogiolo ardente ed universale, più che dalle stesse vicende italiane del fascismo e del postfascismo; più che dal confronto/scontro di tre ideologie datate, essa porta l’impronta di uno spirito universale e, in un certo modo, trans-temporale».
Forse, però, proprio per questo quell’unità fu il miracolo di un momento eccezionale. Forse, l’idea stessa che gli italiani a un certo punto abbiano lottato con unità di intenti contro il fascismo fa parte del corredo dei miti consolatori. Proprio Matteotti, rievocato da Scurati, ci costringe a guardare a un panorama politico più complesso negli anni del fascismo. Nel generale clima di ottundimento della maggior parte della popolazione, che è poi condizione di tutti i dispotismi, l’antifascismo non fu prerogativa della sinistra, come testimoniano le figure di Sturzo e Amendola. Al tempo stesso, buona parte della sinistra era disposta a combatterlo con pari e contrarie forme di violenza organizzata. Lo dice bene Antonio Funiciello in Tempesta, in un bel libro dedicato alla vita del leader socialista e appena uscito per Rizzoli: il primo e più autentico antifascismo fu quello legalitario di Matteotti, che nacque dalla rivendicazione storica dei fondamenti civili del liberalismo e che maturò nelle fila di un socialismo respinto da molti, soprattutto dai comunisti di Gramsci e Togliatti.
Prezzolini diceva che l’arte di persuadere è anche l’arte di mentire. Forse, molti si sono persuasi che la nostra popolazione seppe sapientemente e unitamente imboccare la parte giusta della storia. Non è così, però, se non riusciamo a fare della Liberazione la festa di tutti. Una più serena valutazione del pluralismo delle forze antifasciste e, d’altro lato, del valore della Liberazione e della Resistenza ne sono condizioni essenziali.
Nel 1949, il giorno della Liberazione venne istituzionalizzato come festività nazionale. Con esso anche il 2 giugno, festa della Repubblica che ricorda il referendum da cui è nata la nostra Costituzione. Mettere insieme i due momenti aiuterebbe a ricordare, con semplicità, che la Liberazione è una festa per tutti e di tutti, poiché tutti beneficiamo dello sforzo di unità e ricostruzione di quanti vollero farsi servitori di uno Stato che aveva ritrovato la dignità, l’indipendenza e la libertà.