In caso di disservizio grave e protratto nella raccolta dei rifiuti, i cittadini, ha detto la Corte di Cassazione un paio di giorni fa riferendosi all’emergenza rifiuti a Napoli possono chiedere una riduzione della corrispondente tassa comunale. Dicendo ciò, ha ribadito un principio che, purtroppo, trova scarsa applicazione nella realtà: quello della corrispondenza fra la qualità dei servizi pubblici e il loro costo per il contribuente/utente.
I servizi si chiamano così perché sono attività prestate a beneficio dei cittadini. Il pagamento di una tassa per il loro funzionamento non può quindi non tenere conto del valore concreto di quella attività: della sua qualità, dei costi per renderlo efficace. Purtroppo, invece, la spesa per i servizi pubblici nelle nostre città appare scollegata a quanto li paghiamo: a Roma i rifiuti costano più che a Bolzano, a Napoli più che a Verona.
La decisione della Cassazione, giustamente enfatizzata dai media, ha soltanto applicato una sacrosanta conseguenza del concetto di servizio pubblico: è giusto pagare in corrispondenza del servizio che si riceve. Tutto bene, dunque? Non proprio.
Partiamo dalle date: i fatti all’origine di questa importante decisione sono del 2008. Ci sono voluti quindi 9 anni perché fosse riconosciuto al contribuente il diritto a ottenere la restituzione parziale di quanto versato nove anni prima.
Se ritenessimo che il servizio pubblico è gravemente carente, dovremmo trovare il tempo, tra i mille accidenti di cui si compongono le nostre giornate, di ricorrere alle vie giudiziarie, pagare un avvocato, anticipare le spese legali, attendere che la giustizia si pronunci, e sperare che, anni dopo, i giudici la pensino definitivamente come noi: quando una gestione è semplicemente poco efficiente, e quando invece è talmente difforme dalle modalità ordinarie da impedire l’agevole fruizione del servizio? Quanto tempo deve trascorrere perché il disservizio sia ritenuto patologico?
Considerata anche la scarsa fortuna della class action in Italia, a molti di noi probabilmente passerebbe senz’ altro la voglia di avanzare le nostre ragioni. Anche i più tenaci, comunque, dovrebbero spendere tempo e soldi. La giustizia, certo, è sempre retrospettiva: ripara i torti e ristabilisce il rispetto delle regole, e in ciò è un atto successivo. Ma c’è un modo per provare a sentirsi meno sudditi e più cittadini quando paghiamo le tasse corrispondenti a un servizio? C’è un modo di giudicarne la qualità che non sia necessariamente ricorrere a un processo?
Nei mercati concorrenziali, c’è, ed è appunto la concorrenza. Anche i servizi pubblici possono essere concorrenziali.
Ciò non significa che diventino automaticamente efficienti. Significa però che, laddove non lo siano, si possono provare gestori, modalità, responsabili diversi. E quindi che si possa provare a migliorare il servizio, mettendo a confronto più proposte.
Nel riordinare la disciplina dei contratti pubblici dopo il referendum sull’acqua, il governo ha solo sulla carta ripristinato come ordinaria la modalità di aggiudicazione dei servizi pubblici tramite procedure ad evidenza pubblica.
Per come è stato scritto il decreto legislativo, è facile per le amministrazioni evitare le gare e internalizzare il servizio. Le regole sono fatte per essere infrante, ma a seconda di come si scrivono si possono eludere più o meno facilmente. Se davvero si volesse introdurre quel grado di concorrenza che è valutazione del servizio pubblico locale, basterebbe ad esempio obbligare i comuni a indire una gara, prima di dire che è impossibile trovare un offerente.
Da Il Mattino, 29 settembre 2017