Domanda: può essere un limite per uno studioso essere parte e protagonista del dibattito politico, nazionale e internazionale, insomma vivere nella contemporaneità? Certamente no. Anzi. Che però questo riduca la proiezione temporale del pensiero, dell’analisi, delle riflessioni, ne assottigli lo spessore, l’attrattiva, per le generazioni a venire, questo sì, può succedere, soprattutto in un mondo che brucia tutto e subito, e in cui il pensiero è oramai un optional, un puntino sbiadito all’orizzonte. Ma se tale è la dimensione del lavoro e delle opere di Raymond Aron, ben venga questo “difetto”.
Sociologo, filosofo, politologo, editorialista, ha vissuto il suo tempo (1905-1983) da protagonista, da combattente. Uno studioso della realtà, come sottolinea Agostino Carrino, a sua volta giurista e filosofo, in un libro ricco e profondo (Raymond Aron, Ibl Libri, euro 14) denso di riflessioni personali e di riferimenti bibliografici. Una realtà che Aron voleva comprendere, approfondire, non cambiare.
L’altra faccia, quella liberale, del suo contemporaneo e antagonista Jean-Paul Sartre, sul palcoscenico che ha più animato il dibattito culturale del secolo scorso, quello di Parigi, della Francia, in particolare alla fine degli anni `60. Aron, ammiratore critico di De Gaulle, paladino del liberalismo non ideologico, e Sartre, il marxista teorico della rivoluzione, il pensatore che infiammava i discorsi dei manifestanti al quartiere latino. Nel suo studio al Collège de France, sommerso di libri, distillava la sua saggezza, spiegava all’interlocutore assetato di conoscenza delle cose francesi che scrutava con attenta simpatia, perché Giscard, che lui aveva votato alle presidenziali del maggio 1981, fosse politicamente un gradino più in alto di Mitterand che lo aveva battuto. Giscard che aveva studiato alla Ena, la Scuola nazionale di amministrazione, quella che formava i grand commis di Stato, in cui Aron aveva insegnato. Il Presidente che non aveva bisogno di consiglieri perché i dossier, anche i più delicati, sapeva maneggiarli e guidarli, mentre Mitterrand, il “politicante”, aveva dovuto riempire l’Eliseo di esperti che colmassero le sue lacune. Coerente, dunque, in questo giudizio con la sua cultura della concretezza, dello stare nel presente e alla storia, alla loro analisi oggettiva.
Non a caso, in riferimento al dibattito riguardo a una possibile chiamata di Putin di fronte alla giustizia internazionale per i crimini di guerra in Ucraina, Carrino ricorda e attualizza una valutazione di Aron su Norimberga. “Noi non abbiamo la certezza che quello che subirà la sentenza di Norimberga sarà lo Stato colpevole; lo Stato vinto. Allora questo Stato vinto era il più colpevole, cioè la Germania hitleriana. Ma dal momento in cui si condanna il ‘crimine contro la pace’, per esempio, sono sicuro che il vincitore riuscirà a dimostrare che il vinto si è reso responsabile della guerra”.
Un grande tema, quello della responsabilità, affrontato da Aron “in modo pragmatico e non dogmatico, osserva Carrino, che si affida molto al ruolo delle regole costituzionali, che si prende cura delle libertà possibili e non di astratti ideali, al punto da giustificare quella prassi apparentemente intollerabile per liberali come Hayek, della ridistribuzione delle ricchezze, sia pure secondo necessità anche qui non generiche ma funzionali, sempre, a un esercizio concreto delle libertà e a una educazione alle libertà entro l’ordine giuridico dello stato di diritto”. Questo ancoraggio al presente, con l’occhio rivolto alla storia, è quello che ha permesso ad Aron di essere anche un grande commentatore delle vicende di attualità, lasciando scritti indimenticabili, puntuali, militanti, anche per il Giornale del suo amico Montanelli, consentendogli addirittura una brillante attività di commentatore radiofonico. Attività che solo uno studioso sul terreno, con il Dna del “liberale realista” poteva svolgere. Perché ad Aron non sfuggiva, vivendo nella società, che per essere libera “occorre innanzitutto che quella società esista”.