13 Gennaio 2017
Il Foglio
Carlo Stagnaro
Direttore Ricerche e Studi
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Sarà vero che chi disprezza compra? Nel caso dei voucher e della Cgil, apparentemente sì. Ed è una considerazione importante per valutare il quesito referendario sull’abolizione dei buoni lavoro che, dopo la bocciatura di quello sull’articolo 18, è diventato uno dei terreni più caldi del dibattito politico. Per capire la questione, bisogna anzitutto mettere i fatti in fila. In un colloquio con Repubblica, Susanna Camusso ha dato la linea: i voucher “offendono la dignità delle persone” e “creano un precariato più insopportabile di quello che si doveva eliminare”. E ancora, un paio di giorni dopo: “I voucher sono diventati i pizzini che retribuiscono qualsiasi attività. Così si inquina il buon lavoro e si condannano milioni di giovani e lavoratori a un futuro povero. Vanno aboliti”. Subito, però, viene fuori il segreto di Pulcinella: tra i tanti utilizzatori dei voucher, c’è proprio la stessa Cgil. La Cgil un po’ minimizza, un po’ abbozza. Il segretario regionale dell’Emilia Romagna della Spi Cgil, Bruno Pizzica, dice che i voucher sono “l’unica forma” per remunerare certe prestazioni senza “cadere nel lavoro nero”. Sul punto, il presidente dell’Inps, Tito Boeri, ha però confidato a Repubblica che “nell’ultimo anno la Cgil ha investito 750 mila euro in voucher; non si tratta quindi né solo di Bologna né solo di pensionati”.
Il dato è rilevante perché dimostra che la Cgil appartiene al club degli utilizzatori più intensi dei voucher. Tenendo conto che sarebbero circa 600 le persone coinvolte, se ne ricava un compenso di circa 1.250 euro a testa, mentre la mediana è di poco inferiore ai 300 euro. Di più: con 75 mila buoni acquistati, l’organizzazione guidata da Camusso fa parte dello 0,2 per cento di committenti che ne acquistano più di 10 mila l’anno.
Sarebbe facile e sbrigativo, ma soprattutto sbagliato, limitarsi a cogliere l’incoerenza e accusare la Cgil di predicare bene e razzolare male. La realtà è esattamente all’opposto: la Cgil razzola bene ma predica male. Razzola bene, perché utilizza (possiamo presumere senza abusarne) i buoni lavoro per prestazioni che si collocano perfettamente al di sotto dei limiti di legge (7 mila euro per lavoratore e 2 mila euro per impresa con lo stesso lavoratore). Ne fa inoltre un impiego finalizzato a coprire mansioni che altrimenti, viste le loro caratteristiche, per ragioni sia di costi sia di complessità burocratica, finirebbero per essere svolte in nero. In questo senso, la Cgil dà il buon esempio e pone se stessa come pietra di ‘I paragone nei confronti di tutte quelle imprese troppo disinvolte che abusano dei voucher (anche se gli abusi, grazie alla trac ciabilità da poco introdotta, saranno sempre più difficili). Solo che, anziché mettersi sul piedistallo e scudisciare gli imprenditori disonesti, preferisce combattere una battaglia tutta politica per privare gli imprenditori onesti (e se stessa) di uno strumento che può e deve essere migliorato, ma non per questo dovrebbe essere gettato in pattumiera.
Così facendo, la Cgil non tutela né i lavoratori né le imprese corrette, e non combatte la battaglia contro il sommerso (nella quale invece ci si aspetterebbe di vederla in prima linea). A differenza di altri sindacati, sceglie di non partecipare neppure alla discussione su come limitarne i difetti e massimizzarne i pregi. Per esempio, il leader della Fim Cisl, Marco Bentivogli, parlando con l’Unità, ha riconosciuto apertamente che i voucher “sono uno strumento buono e utile” che semmai andrebbe pienamente ricondotto nell’ambito dei lavori saltuari. Ambito per il quale, però, sono e restano un importante presidio contro il nero.
La scelta a cui gli elettori si troveranno di fronte, dunque, è semplicemente questa: se regolamentare il lavoro accessorio contemperando la tutela del lavoratore con le esigenze di flessibilità delle imprese, oppure gettare la spugna e arrendersi all’illegalità. Con le sue azioni la Cgil si pone dalla parte giusta e seria, ma le sue parole la spostano dall’altro lato della barricata. Purtroppo, questo è uno di quei casi in cui le parole pesano quanto e più delle azioni.
Da Il Foglio, 13 gennaio 2017