È convinzione sempre più diffusa che la crisi economica sia una condizione permanente, nel nostro Paese. Sei anni di crescita prossima allo zero o negativa si sentono: e l’elevato tasso di disoccupazione, per tacere della disoccupazione giovanile, ne è testimonianza palmare.
Davanti alla percezione di un impoverimento diffuso, bisognerebbe impegnarsi per tornare a creare le condizioni per creare, a propria volta, ricchezza: per tornare a crescere. Difatti, se la classe politica non può creare dal nulla ricchezza, nondimeno in un Paese iperregolamentato e ipertassato come il nostro ci sarebbe molto da fare per persuadere chi può produrre ricchezza a farlo, ovvero per smettere di ostacolarlo per via regolatoria e fiscale.
Il gruppo del Movimento Cinque Stelle al Senato ha scelto una strada diversa, con una proposta di legge su reddito di cittadinanza e salario minimo che, nella relazione che l’accompagna, è una straordinaria testimonianza dello spirito dei tempi.
Nonostante una dichiarazione di resa secondo cui, “con le misure adottate dall’attuale classe politica, mai più ci sarà lavoro stabile e garantito per tutti”, la proposta confida comunque che quella stessa classe politica che ci condanna alla precarietà e al declino sia in grado di mantenerci tutti, gestendo e distribuendo il pane quotidiano attraverso redditi di cittadinanza e salari minimi.
Basta, quindi, cercare di far crescere il PIL, produrre “beni, spesso non necessari e inutili, in eccesso rispetto alle reali necessità del mercato” (secondo parametri di inutilità e non necessità noti evidentemente agli inquilini di Palazzo Madama). Bisogna invece agire sul versante della distribuzione del PIL esistente: con un reddito di cittadinanza, riconosciuto a tutti gli italiani indipendentemente da età, professione, livello d’istruzione.
Se alla proposta dei grillini corrispondesse davvero, come pure loro scrivono, un welfare “più certo ed essenziale”, se cioè lo Stato per diventare finanziatore del reddito delle perone smettesse di essere produttore dei servizi “sociali”, se ne potrebbe discutere. Ovviamente, però, il testo della norma non contempla una riduzione dei servizi forniti dallo Stato, e quindi del costo del welfare, quanto invece aumenti tributari, con qualche demagogico taglio ai costi della politica.
Al contrario, assieme al reddito di cittadinanza (che pure immaginano, in un momento di realismo, diversamente modulato a seconda della condizione lavorativa dei beneficiari), i grillini auspicano la contestuale adozione di un salario minimo e del diritto all’abitazione. Il che significherebbe un ulteriore fattore di rigidità rispetto a un prezzo, il prezzo del lavoro o degli immobili locati. È difficile che si possa tornare a crescere impedendo ai prezzi di fare il loro mestiere.
Immaginare un futuro roseo per il nostro Paese, sic stantibus rebus, è sicuramente un’illusione. È altrettanto illusorio e dannoso, però, credere che la classe politica possa curarsi del benessere dei cittadini distribuendo con ipocrita magnanimità quanto è rimasto di una torta che continua a restringersi.