Ci sono tanti modi di ridistribuire quattrini. Di solito, i governi preferiscono attribuirli a gruppi specifici, dai quali si aspettano in cambio consenso. Al contrario, alcune delle sfide dei nostri tempi (a cominciare dall’innovazione tecnologica) consigliano di adottare misure di stampo universalistico: le quali avrebbero il pregio di ridurre l’intermedizione politica e, appunto, il grado di discrezionalità di chi sceglie come distribuire quattrini. C’è però un problema se l’universalismo diventa una mera formula politica, alla quale corrispondono misure molto diverse.
Luigi Di Maio ha rassicurato il suo partner di governo: gli italiani saranno gli unici beneficiari del reddito di cittadinanza. Ne saranno esclusi, quindi, i residenti stabili nel nostro Paese che non sono cittadini italiani.
Siamo dunque lontani dalla proposta di reddito minimo che era alla base della promessa elettorale del Movimento Cinque stelle. Nella precedente legislatura i Cinque stelle avevano infatti proposto non un assegno universale a una determinata comunità (reddito di cittadinanza, appunto), ma una misura di sostegno alla povertà erogata in denaro. A sentire Di Maio, invece, dovrebbe trattarsi ora di una sorta reddito universale attribuito per il solo merito di essere italiani. Precisazione dopo precisazione, emerge un quadro ancora nuovo: quello di una misura di contrasto alla povertà (niente sussidio per chi sia proprietario di casa, per esempio), ma riservata ai soli italiani, che immaginiamo significhi ai soli residenti di cittadinanza italiana. In quest’ultima ipotesi, escludere i residenti non italiani sarebbe però semplicemente discriminatorio. Se si tratta di una misura di contrasto alla povertà, legarla ai requisiti di cittadinanza solleverebbe immediatamente profili di incostituzionalità che il primo stabile residente straniero minimamente avveduto porterebbe all’attenzione della Corte costituzionale.
D’altro canto, è chiara la duplice apprensione di Di Maio. Dal punto di vista politico, l’alleanza vitale con Salvini impone di dare una connotazione «nazionalista» alla più importante delle sue promesse elettorali. Dal punto di vista sociale e economico, è fondata la preoccupazione di evitare che tutte le risorse a disposizione servano a sostenere soggetti magari solo di passaggio nel territorio italiano, o peggio ancora invogliati a raggiungerlo solo per avere l’assegno in questione.
Al di là delle ragioni di alleanza di governo, sono proprio queste preoccupazioni che svelano la debolezza della proposta del reddito di cittadinanza – e che suggerirebbero che oggi non è proprio su una misura così ambiziosa, ma di difficile disegno, che vanno concentrate risorse in una manovra scritta sotto il segno della fretta. Le alternative, infatti, non sembrano più di due. O ampliare, senza soluzione di continuità, il reddito di inserimento ereditato dal governo Gentiloni, rispetto al quale si potrà – pericolosamente per i conti pubblici – allargare i destinatari ai «poveri relativi» e allentare ancor di più le maglie della condizionalità legate alla ricerca del lavoro. O – se si vuole tener fede alla retorica del reddito di cittadinanza – inventare un reddito incondizionato di pura connotazione assistenzialista, al di fuori della necessaria cornice di un cambiamento complessivo del sistema fiscale, nella quale un’operazione simile potrebbe avere senso, come ripensamento complessivo del nostro welfare. In questo secondo caso, destinarlo ai soli italiani stempererebbe certo le tensioni nel governo ma non dovrebbe rassicurarci affatto per quel che riguarda i conti pubblici. Peraltro, il sospetto di incostituzionalità per violazione del principio di uguaglianza è talmente forte che un annullamento o un’abrogazione da parte dello stesso Parlamento sarebbero solo questione di tempo. Con buona pace di quella certezza e linearità nei loro rapporti con l’amministrazione di cui le famiglie più deboli hanno disperato bisogno.
26 settembre 2018