Regola sui tre anni di prova al lavoro, non risolve il problema, lo rinvia

Per il datore sarà un periodo di incertezza, vivrà nel dubbio se investire il proprio capitale umano. Se questa non è precarietà, che cosa lo è?

17 Marzo 2014

Corriere della Sera

Franco Debenedetti

Presidente, Fondazione IBL

Argomenti / Teoria e scienze sociali

I nomi contano. Di una liberalizzazione dei contratti a termine che si nasconde dietro quello di «prova», estendendolo a un periodo, questo sì «senza precedenti», di tre anni, il meno che si possa dire è che non ha il coraggio di chiamarsi con il suo nome. Che poi questa liberalizzazione «incida sul mercato del lavoro più che se fosse stato abolito l’art.18» come scrive Enrico Marro («Meno vincoli e alibi sulle assunzioni», Corriere della Sera del 13 marzo), è difficile da capire.

Un «vincolo», se lo si sposta nel tempo, non cambia natura. Tre anni dopo, il datore di lavoro avrà conoscenza più approfondita del suo «avventizio», non necessariamente maggiore visibilità sulle future condizioni economiche della sua azienda, che gli potrebbero consentire l’assunzione a tempo indeterminato: lì infatti continua a valere l’attuale normativa. Anche l’«avventizio» sa che alla fine del periodo di prova ci sarà uno scalino, che verrà presa una decisione sul suo futuro, dentro o fuori; per lui il periodo di prova sarà un periodo di incertezza, vivrà nel dubbio se investire il proprio capitale umano. Se questa non è precarietà, che cosa lo è? Il decreto l’aumenta: già oggi la percentuale di assunzioni con contratto a tempo indeterminato è scesa al 16 per cento sul flusso totale, non stupiamoci se scenderà ancora. Un «alibi» lo è già diventato: ha consentito di rimandare l’approvazione del codice che semplifica la giungla delle norme sul lavoro, riducendo le attuali 2.000 pagine di norme a 60 articoli brevi e leggibili da parte di chiunque.

I nomi contano. «Art.18», anche dopo l’ammorbidimento recato dalla legge Fornero del 2012, è il simbolo della rigidità del nostro mercato del lavoro, la prima delle riforme su cui l’Europa ci osserva. È lo strumento che consegna alla magistratura il potere di giudicare e di intervenire in materia di conduzione aziendale. È, soprattutto, la consacrazione del principio della job property: senza sradicarlo dal sistema produttivo, continueremo a spendere per mantenere posti di lavoro anziché per incentivare il lavoratore a cercarne un altro; senza sradicarlo dal pubblico impiego, la spending review si arresterà dì fronte ai «problemi politici», reingegnerizzazione dei servizi della Pubblica amministrazione e riduzione dell’impronta dello Stato resteranno parole. Nomi che non contano.

Dal Corriere della sera, 15 marzo 2014
Twitter: @FDebenedetti

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