Ci si può sentire offesi, anzi offese, dalle regole grammaticali così come si sono sedimentate nel tempo?
Qualche giorno fa l’Università di Trento ha approvato il nuovo regolamento generale di ateneo, scritto utilizzando il femminile sovraesteso. Un atto simbolico, come ha detto il suo rettore, per dimostrare parità a partire dal linguaggio dei documenti dell’ateneo. Nel regolamento, i ruoli e le cariche sono tutti volti al femminile, a prescindere dal genere delle persone che le ricoprono, come segno di attenzione all’uso discriminatorio del maschile esteso.
Come insegna l’Accademia della Crusca, nella nostra lingua il genere grammaticale non corrisponde al genere naturale. Se, quando ci si riferisce a persone, si tende a far coincidere le due categorie, è vero anche che esistono nomi femminili per ruoli maschili e viceversa. È per questa non corrispondenza che un uomo resta sempre una spia, e una donna è un soprano. Sempre in virtù di questa non corrispondenza, il lei di cortesia vale anche per un lui, seguito da aggettivi o participi al femminile anche quando ci si rivolge a un uomo.
Premessa questa non sovrapposizione, si può sostenere che l’uso esteso del maschile, anche nelle formule neutre del plurale, neutrale non è e viene da una visione risalente del mondo in cui l’uomo è parametro delle cose. La lingua è uno dei più evidenti segni di come interpretiamo il mondo, e a sua volta è così potente da influenzare tale interpretazione. Probabilmente è per questo che “la maestra” è quotidianamente utilizzata a differenza di altri nomi indicanti professioni e incarichi che le donne hanno iniziato a ricoprire solo in tempi recenti (a partire da presidenta, ministra, sindaca, ma anche ingegnera e avvocata).
Il celebre glottologo Giacomo Devoto, in una prefazione alla traduzione italiana de ll marxismo e la linguistica di Stalin, paragonò la grammatica ai profili delle Alpi, che «sono il risultato di un processo di levigazione da parte dei ghiacciai come la grammatica è il risultato di un processo di levigazione della storia». Le regole umane cambiano. Quelle grammaticali con molta lentezza. Non c’è motivo, quindi, per non immaginare nel tempo una evoluzione delle forme femminili di funzioni, professioni e incarichi, anche quando, poiché ancora non diffusi, ci sembrano suonare male. Né i modi per aggirare il maschile esteso devono per forza ritenersi ridicoli.
La domanda però è se ci si può sentire offesi, anzi offese, dalle regole grammaticali così come si sono sedimentate. È lecito dubitare che concentrare l’attenzione, come sembra avvenire negli ultimi anni, sull’imposizione di regole nuove come nuova forma di rispetto di genere sia utile a una completa parità di genere (comprese le identità non binarie). Sarebbe bello che chi si sente offes* dall’uso del maschile esteso faccia un passo in avanti e pretenda che il superamento degli stereotipi si raggiunga con la possibilità concreta di conquistare nel mondo reale il prestigio, la riconoscenza, l’autorevolezza, la credibilità che chiunque può provare a meritarsi.
Nel 1987, su incarico della Presidenza del Consiglio dei ministri, Alma Sabatini pubblicava una ricerca su II sessismo nella lingua italiana, che, sulla scorta di alcune indagini americane degli anni Settanta, aveva il fine di rilevare le forme sessiste del linguaggio e raccomandare le varianti non discriminatorie. Lo stesso anno, Margaret Thatcher ricopriva per il terzo mandato la carica di primo ministro. Dobbiamo davvero chiederci quale tra i due fatti ha contribuito di più alla causa dell’emancipazione di genere?
L’Europa degli anni Settanta, l’Europa della Lady di ferro che non amava il femminismo e non era amata dai movimenti femministi, era un’Europa molto più maschile e maschilista. Come racconta Carol Thatcher nella biografia del padre, lo stesso vertice del partito conservatore non poteva immaginare di essere guidato da una donna e pensava che la vittoria della Thatcher sarebbe durata il soffio di una curiosità politica o, peggio, di un esperimento femminista. Eppure la leadership della Thatcher è stata una delle più importanti dimostrazioni che la capacità di realizzare le proprie ambizioni, quali che siano, e di essere rispettati nelle scelte, nelle idee e nei comportamenti non dipendono dal genere.
Nella prima metà dell’Ottocento, Giuseppe Gioacchino Belli dedicò un sonetto a una madre che dileggiava il figlio per aver scelto come moglie una dottoressa anziché una “ssciacquetta”. Oggi, le donne sono molto più che dottoresse. Il cammino per l’emancipazione femminile è stato lungo e complesso ma è difficile non vedere quanta strada sia stata percorsa: il voto fu concesso alle donne solo nel 1945, l’accesso alla magistratura nel 1963. Resta ancora del cammino da fare, specie negli ambienti domestici, dove molti comportamenti sono ancora quelli che impediscono una reale pari opportunità, nel senso letterale di avere le stesse occasioni.
Di questo è bene preoccuparsi, specie nelle università che sono luogo per eccellenza di formazione: delle regole di comportamento, delle regole di rispetto concreto verso le donne, prima che di quelle grammaticali, le quali, come le rocce alpine, cambiano e si trasformano attraverso un processo naturale di sedimentazione che segue, e non precede, il corso delle umane vicende.
da La Stampa, 6 aprile 2024