È legittimo chiedersi se le generazioni future potranno e vorranno davvero onorare il “debito implicito”
Dall’avvio della riforma Dini sul metodo contributivo per il calcolo delle contribuzioni, la natura dei contributi come retribuzione differita e non come imposta si può dire, per fortuna, definitivamente risolta. Il sistema si presenta secondo il principio di restituire ad ognuno quello che egli ha pagato. In questa prospettiva, pensare a requisiti minimi di età/anzianità necessari per maturare il diritto alla pensione contributiva significa non aver ben capito la logica sottostante. Le accanite discussione al riguardo (si pensi alla mitica “quota 100”, o alle problematiche dell’APE o della “opzione donna”) possono giustificarsi se riferentesi solo alla attuale fase di transizione, in cui le pensioni liquidate sono ancora, parzialmente, retributive. Purtroppo, è invece previsto che quei requisiti durino nel tempo.
Il problema è che, nonostante l’idea base del metodo contributivo per cui a ognuno viene restituito il suo, i contributi individuali vengono capitalizzati solo virtualmente e spesi a favore dei pensionati vivi al momento. Continua dunque la situazione precedente la riforma: toccherà alle generazioni future farsi carico del “debito implicito” e rimborsare quel prestito, pagando le pensioni oggi promesse. Si parla spesso, a questo proposito, di patto intergenerazionale. Tuttavia, per fare un patto occorre l’accordo di due parti: qui, una delle due non sembra sia stata consultata. È legittimo chiedersi se le generazioni future potranno e vorranno davvero onorare il “debito implicito”.
Un video di sintesi è disponibile qui.