L’idea che il principio di precauzione debba sempre prevalere sulla responsabilità personale rischia di diventare il criterio principale del marketing in campo alimentare
22 Febbraio 2018
Argomenti / Diritto e Regolamentazione , Teoria e scienze sociali
Giacomo Lev Mannheimer
Una nota catena di supermercati ha recentemente dato il via a una campagna promozionale denominata “La vita in blu”. Scopo del programma è “aiutare i propri clienti a scegliere come mangiare”, attraverso apposite etichette apposte su alcuni prodotti scelti per le loro caratteristiche e proprietà nutrizionali. Dietro l’intento sbandierato di offrire trasparenza relativamente ai prodotti che fanno ‘bene’ o ‘male’, tuttavia, il progetto presenta diverse criticità deontologiche e giuridiche.
L’iniziativa solleva alcuni dubbi, innanzitutto, riguardo il suo rigore metodologico: sia per la discrezionalità della valutazione, sia perché tra i criteri di esclusione dei prodotti dall’etichettatura rientra la presenza di OGM o olio di palma, i quali tuttavia non comportano, dal punto di vista scientifico, alcun danno comprovato alla salute umana. Da un punto di vista legale ci si potrebbe chiedere, poi, se e in che misura un esercente commerciale sia responsabile di diffondere etichette di salubrità discrezionali e opinabili dal punto di vista scientifico; e ciò a maggior ragione in quanto le indicazioni presenti sulle etichette apposte non consentono di identificare in modo specifico né quali siano i criteri per l’assegnazione dell’evidenziazione (come nel caso de “La vita in Blu”), né soprattutto come i consumatori dovrebbero interpretare l’etichetta.
Chiunque sostenga che un alimento faccia ‘bene’ o ‘male’ dovrebbe farlo con la dovuta precauzione, se non altro perché i fattori da tenere in considerazione per valutarlo sono numerosi ed eterogenei: dalla specifica qualità del prodotto alla frequenza con cui viene consumato, dalle condizioni di salute alla reazione di ciascuno nel consumarlo. Se poi a farlo è il legislatore o un soggetto apparentemente ‘terzo’, la responsabilità è doppia: l’ufficialità – o quantomeno la sua parvenza – degli atti emanati, infatti, può trarre in inganno i consumatori, conducendoli a interpretare come validi in ogni caso suggerimenti che, al contrario, sono nella stragrande maggioranza dei casi limitati a determinate circostanze.
In generale, il rischio è che il trend culturale in corso – secondo cui il principio di precauzione debba sempre prevalere sulla responsabilità personale – dopo avere influenzato il costume e la regolazione diventi il criterio principale del marketing in campo alimentare.