L’Italia è sola anche perché offre di sé una immagine instabile. Perché appare inaffidabile e imprevedibile
25 Novembre 2018
Argomenti / Politiche pubbliche
Paolo Belardinelli
Research fellow IBL e fellow London School of Economics
Nicola Rossi
Secondo un noto giornalista, le previsioni economiche non sono altro che oroscopi. Può darsi. Comunque sia, l’oroscopo contenuto nel Superindice IBL dello scorso giugno (”Italia. L’arma (spuntata) dell’euro”, Corriere Economia, 11 giugno 2018) sembrerebbe averci preso in pieno: l’Italia è isolata, senza alleati, marginalizzata, come avevamo previsto e come si conferma ogni giorno di più in questo autunno italiano.
Facciamo un passo indietro: il Superindice IBL misura, a cadenza regolare e sulla base delle informazioni ufficiali rilasciate dalla Commissione Europea, la “distanza macroeconomica” fra l’Italia e l’Unione Europea (o anche l’Area dell’Euro) sintetizzando in un unico indicatore gli andamenti relativi ai principali indicatori macroeconomici: il rapporto fra disavanzo pubblico e prodotto, il rapporto fra debito e prodotto, il tasso di crescita del prodotto, il tasso di disoccupazione, il saldo dei conti correnti rispetto al prodotto. É dunque una misura sintetica della nostra performance macroeconomica relativa (e non assoluta) che assumerebbe valore zero nel momento in cui la nostra configurazione macroeconomica dovesse essere corrispondente alla media europea e valore positivo e crescente via via che ce ne dovessimo allontanare. Se si vuole, il Superindice IBL è niente altro che uno strumento – rivelatosi fino ad ora piuttosto attendibile – per spingerci ad abbandonare la tendenza tutta italiana a considerarci come “l’ombelico del mondo” e invitarci a guardare noi stessi per quello che siamo. Immersi in una vasta area economica integrata con cui collaborare ed in cui competere. Per informazioni più dettagliate su questi ultimi concetti, rivolgersi ad un suddito a caso di Sua Maestà britannica.
Bene, quel che l’ultimo aggiornamento del Superindice IBL ci racconta è che non solo l’Italia è isolata ma che in questi ultimi mesi ha fatto quanto poteva per esserlo ancora di più. Perché fosse chiaro a tutti che l’Italia era e voleva rimanere il paese “deviante” per eccellenza. Il grafico precedente riporta l’andamento del Superindice IBL a partire dal 1997 e racconta una storia piuttosto semplice (e relativamente indipendente dal colore dei diversi Governi che si sono succeduti nel tempo) di ripetuti allontanamenti dai comportamenti medi dei nostri partner europei e di successivi ripetuti avvicinamenti agli stessi. Una storia tutta italiana che sembrerebbe dare qualche giustificazione alla preoccupazione se non proprio al sospetto con cui molti nostri partner tendono spesso a guardarci. Una storia in cui gli ultimi anni – a partire dal 2014, per la precisione – si segnalano come gli anni della deviazione più eclatante e più netta. Con buona pace di tutto ciò che quotidianamente ci sentiamo dire circa le imposizioni europee che l’Italia avrebbe subito fino a qualche mese fa. E con buona pace della retorica del “cambiamento” che da qualche tempo imperversa. Se fosse necessario sintetizzare la performance relativa italiana degli ultimi tempi basterebbe un semplice riferimento musicale: “come prima, più di prima”.
Ma perché, nell’attuale contesto europeo, l’Italia non trova alleati? Nemmeno di facciata. Nemmeno per buona educazione. Perché non li trova nemmeno fra i paesi che, apparentemente, dovrebbero avere una visione politica non così distante da quella del Governo italiano in carica? L’elaborazione del Superindice IBL non già per singoli paesi ma per aree in qualche senso omogeneo aiuta a formulare una risposta.
Tenendo a mente che il processo di allargamento dell’Unione Europea si avvia, formalmente, con il 2004, è immediato osservare che lo sforzo di convergenza messo in campo dai paesi del cosiddetto Gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria) è stato, nell’ultimo decennio e sotto il profilo economico, evidente e senza precedenti in ambito europeo. Per quanto possano esservi assonanze politiche, è difficile immaginare che chi ha così duramente lavorato nel senso della convergenza – con l’aiuto molto concreto, si noti, dell’Unione Europea – possa accettare o anche solo tollerare andamenti dirompenti come quelli mostrati dall’Italia fin dal 2014 e visibilmente confermati se non accentuati dalla Legge di bilancio in discussione in Parlamento e, più in generale, dalla timidezza con cui l’Italia sembra voler affrontare i suoi problemi strutturali (peraltro ben precedenti l’ingresso nell’area dell’euro).
E che dire del Club Med (Cipro, Grecia, Malta, Portogallo, Spagna) che, al netto dell’Italia, dopo il significativo processo di aggiustamento della prima metà del decennio in corso mostra sì, segni di allontanamento dalla media ma di ampiezza ancora contenuta (e pressoché interamente attribuibili alla necessità della Grecia di riprendere fiato dopo gli ultimi difficili anni)? O dei paesi di quella che potremmo chiamare la Lega Neo-Anseatica (Danimarca, Estonia, Finlandia, Irlanda, Lituania, Lettonia, Svezia) che mantengono nel tempo la loro posizione rispetto alla media europea con una limitata tendenza alla divergenza derivante – attenzione! – dall’ “eccesso di virtù” di paesi come la Danimarca e la Svezia? O di quelli che potremmo chiamare gli Altri Fondatori (e cioè i fondatori diversi dall’Italia: Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo, Paesi Bassi) che dopo l’aggiustamento conseguente alla crisi dei debiti sovrani sembrano anch’essi concedersi qualche minimo “margine di libertà” rimanendo peraltro, fermamente, in una banda di oscillazione del tutto fisiologica?
L’esercizio potrebbe essere ripetuto, con risultati peraltro molto simili, anche per l’Area dell’euro. Ma, al di là degli andamenti dei singoli gruppi di paesi membri, è facilmente comprensibile perché l’Italia sia oggi una fonte di inquietudine e viva preoccupazione in ambito europeo. Innanzitutto la nostra incapacità di considerare in termini condivisi i limiti strutturali dell’economia italiana e di affrontarli come meritano ha fatto sì, nell’ultimo ventennio, che l’Italia fosse spesso costretta ad aggiustamenti macroeconomici improvvisi e dolorosi proprio quando sarebbe stato necessario fare il contrario. É facile prevedere che l’esperienza si potrebbe ripetere a breve con conseguenze che potrebbero non essere contenute alla sola Italia. E di ciò i nostri partner europei sono perfettamente consapevoli. Ma, più in generale, in nessun altro caso si riscontrano oscillazioni così violente, fenomeni così netti di allontanamento dalla media dei comportamenti altrui seguiti poi da processi di aggiustamento di pari intensità. L’Italia è sola anche perché offre di sé una immagine instabile. Perché appare inaffidabile e imprevedibile. Perché è difficile comprendere dove voglia andare e con chi. Perché da un quarto di secolo cambia continuamente senza mai cambiare. E perché, esattamente per questo motivo, costituisce un problema per sé e per gli altri. Che ci si creda o no, quel che l’Europa sta preparando per noi non è un salvagente ma un cordone sanitario.
Se questa rappresentazione dei fatti fosse attendibile – e tendiamo a credere che lo sia – tuonare contro i burocrati europei, inveire contro le eventuali sanzioni (che, c’è da giurarci, prima o poi diverranno “inique”), aggrapparsi alla speranza di un rovesciamento di fronte politico in Europa, significa continuare ostinatamente a non vedere e a non capire che il problema che abbiamo di fronte è tutto italiano. Affermare che “contro la procedura di infrazione insorgeranno 60 milioni di italiani” significa non comprendere che per molti milioni di italiani lo stretto controllo sulle finanze pubbliche esercitato dalla Commissione Europea nell’ambito della procedura di infrazione potrebbe apparire come una liberazione rispetto ad una classe politica che, pur rinnovandosi, da un quarto di secolo sembra incapace di offrire al paese una prospettiva di stabilità e crescita (ogni riferimento al fiscal compact non è puramente casuale).