Riforma del codice antimafia: colpevoli fino a prova contraria

Tutti i reati sono una rottura dell'ordine costituito ma non sono tutti uguali, nemmeno sulla carta: commettere peculato non è la stessa cosa che usare violenza criminale secondo i metodi della mafia

16 Novembre 2015

IBL

Argomenti / Diritto e Regolamentazione Politiche pubbliche

A larga maggioranza, la Camera dei deputati ha approvato le modifiche al Codice antimafia.

La parte più consistente delle novità, che passano ora all’esame del Senato, riguarda la gestione dei beni confiscati e delle imprese sequestrate alla criminalità organizzata.

Oltre a ciò, vi è una estensione dell’ambito di applicazione delle misure preventive, sia personali che patrimoniali, che fa esondare la disciplina al di là dell’ambito dei reati di stampo mafioso.

Le misure preventive personali applicate dall’autorità giudiziaria corrono sul crinale della incompatibilità con le garanzie sostanziali e processuali delle libertà individuali, dal momento che limitano i diritti di libertà personale a chi è solo sospetto.

Il crinale, con questa modifica, si estende espressamente non più solo a coloro che sono indiziati di reati di mafia, ma anche a coloro che sono indiziati della maggior pare di reati contro la PA, dal peculato alla concussione fino alla corruzione.

Inoltre, poiché i destinatari delle misure preventive personali possono essere soggetti anche a misure preventive patrimoniali, si ricava che queste, previste dal codice per l’ipotesi classica di attività economiche gestite coi proventi o nell’ambito della criminalità organizzata, siano estensibili a indiziati di ipotesi di reato molto lontane da crimini che giustificano il regime del 41 bis.

Nella relazione di settembre al Parlamento la Direzione investigativa antimafia ha dichiarato che tra mafia e corruzione c’è «un nesso congenito e fortissimo»: la volontà e la capacità della criminalità organizzata fanno forza anche sulla connivenza dei «rappresentanti infedeli delle istituzioni», in un legame evidente, secondo i procuratori italiani, anche nelle regioni non originarie dei gruppi criminali organizzati. D’altra parte, come ha sostenuto la Cassazione, anche Roma ha la sua mafia.

Basta però questo dichiarato legame per estendere le misure di prevenzione a tutti gli indiziati di reati contro la PA, senza distinguere i casi in cui la corruzione è coessenziale ad attività di criminalità organizzata?

Nessuno mette in dubbio la necessità di combattere e sanzionare le attività corruttive. Resta però il dubbio di essere di fronte all’ennesima svista – per così dire – del legislatore, che, concitato per la eterna e eroica lotta alla corruzione a suon di leggi speciali e inasprimenti penali, trascura che non tutti i reati contro la pubblica amministrazione si collegano a fenomeni mafiosi, e che talora si tratta di attività – come nel caso di peculato – per le quali una misura extra ordinem come quella preventiva, che – è il caso di sottolinearlo, si applica per il solo indizio – difficilmente risponde al senso comune della proporzionalità.

Tutti i reati sono una rottura dell’ordine costituito ma non sono tutti uguali, nemmeno sulla carta: commettere peculato non è la stessa cosa che usare violenza criminale secondo i metodi della mafia.  

Naturalmente, nessuna autorità giudiziaria è obbligata ad emettere una misura preventiva. Spetterà ad essa valutare, caso per caso. Se questa precisazione conforta, al tempo stesso inquieta per la costante tendenza a dover fare affidamento sul buon senso delle persone, più che sulla ragionevolezza delle regole. Un affidamento dal quale pensavamo di esserci affrancati anche grazie a principi come quello di presunzione di innocenza, eccezionalmente derogabile solo per gravi ipotesi di reato capaci di mettere in pericolo la pacifica convivenza delle persone.

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