Alzi la mano chi non abbia mai sentito parlare di “riforme”, intese come modifica (per legge) di uno stato di cose per assicurarsi un futuro migliore. La riforma della pubblica amministrazione, ad esempio. Quella della giustizia, del fisco, delle pensioni, della sanità, del lavoro, della scuola, dell’università, del commercio e così via. L’Italia ne ha un bisogno disperato per crescere e rinnovarsi. A parole le abbiamo fatte, le stiamo facendo o le faremo.
Quest’anno ne dobbiamo mettere in campo 66 in diversi settori, dalla lotta alla corruzione ai tagli della spesa pubblica, dal fisco alla PA. Lo prevede, assieme a 102 obiettivi da centrare, il Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) finanziato dall’Unione europea dove compaiono tutte le riforme orizzontali (tipo la Giustizia), quelle abilitanti (tipo la Concorrenza), quelle settoriali (tipo la riduzione degli ostacoli alla diffusione dell’idrogeno). Un grande atlante dei cambiamenti, presentato (con fin troppa enfasi) come l’appuntamento irripetibile della vita nazionale, il Documento sacro degli impegni sottoscritti con Bruxelles che a fronte della sua (verificata) attuazione, dal 2021 al 2026, ci riconosce oltre 200 miliardi.
La guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina complica l’impresa, ma prima di arrivare alla domanda finale (faremo le riforme previste?) serve ripercorrere le puntate dello spettacolo andato in onda nei trent’anni passati, a partire da quando, nel 1991, il governo di allora annunciò che l’Italia era la “quarta potenza” mondiale. E la “contro-storia economica” di Alberto Saravalle, docente di Diritto dell’Unione europea a Padova, e di Carlo Stagnaro, direttore delle Ricerche dell’Istituto Bruno Leoni, già nel titolo del nuovo libro (“Molte riforme per nulla“, Marsilio pagg. 256) ci dà la misura della dimensione enorme del problema. Questo: se le riforme non hanno funzionato, hanno funzionato a corrente alternata o sono rimaste a dormire nei cassetti; se l’Italia è cresciuta molto meno degli altri Paesi europei per tre decenni, ciò è dovuto al ‘fallimento di un’intera generazione, che ha visto nascere con grandi speranze la seconda repubblica ma poi si è rassegnata a tirare a campare grazie al deficit”.
Sono evidenti le responsabilità delle classi dirigenti: “chi per aver promosso le politiche anti-crescita o aver ostacolato le riforme, chi per non saputo fornire argomenti persuasivi, e una visione di lungo termine, all’opinione pubblica”. Trent’anni fa era appena caduto il Muro di Berlino, era crollata l’Unione Sovietica, l’Europa si era incamminata sulla strada del Trattato di Maastricht e l’Italia, con un secolo di ritardo rispetto allo “Sherman Act” statunitense, si era pure dotata di una legge antitrust. Tre decenni dopo, mentre Vladimir Putin invade e bombarda l’Ucraina nel segno del nuovo imperialismo russo, ci ritroviamo, passata la crisi del 2007-2008 e chiusa la fase più dura dell’emergenza pandemica, a fare gli stessi conti lasciati aperti dagli anni Novanta. Quelli, specialissimi, delle riforme che, tra addizioni, moltiplicazioni, divisioni e sottrazioni, alla fine non tornano mai.
Saravalle e Stagnaro le passano tutte in meticolosa rassegna nel loro andirivieni. Il bilancio finale, senza sconti, è (tremendamente) veritiero. Tra salite e discese, curve e rettilinei, “abbiamo pedalato a vuoto o, meglio, abbiamo camminato in tondo, la nostra politica ha prodotto ozio senza riposo e fatica senza lavoro”. Punto. Dal settimo governo Andreotti del 1991 al secondo governo Conte del 2019-2021, dalla prima Repubblica alla fine della seconda passando nel 2018 per l’esecutivo gialloverde sovranista e populista, filo-Trump, filocinese e filorusso, antieuropeo, contrario alla disciplina fiscale, allergico alla concorrenza. Politicamente, insomma, ne abbiamo viste di tutti i colori, ma le riforme sono rimaste una grande incompiuta, come quella del fisco, sempre a metà strada tra la necessità di fare cassa per tappare i buchi e le continue promesse elettorali che quei buchi li scavano.
Ora ci sta provando Mario Draghi. Notano Saravalle e Stagnaro, giustamente, che non può essere “l’Uomo della Provvidenza”: servono “leadership e autorevolezza non per imporre le riforme” bensì per spiegare al Paese le politiche per far crescere il Paese, convincendo l’opinione pubblica. Oggi, alla Camera, si ricomincia a tessere la tela su fisco e concorrenza in un mare agitato di emendamenti. Capiremo presto se siamo o no in un altro girotondo riformista.
da La Prealpina, 22 marzo 2022