Riforme pensate per non funzionare

Dopo le elezioni e le vicende legislative, il governo deve affrontare i problemi con le riforme costituzionali e con i conti pubblici

20 Giugno 2024

La Stampa

Serena Sileoni

Argomenti / Diritto e Regolamentazione

Le vicende elettorali e legislative di questi giorni mostrano la forza e insieme la debolezza del governo. Dalle elezioni europee, la coalizione di destra ha aumentato il consenso rispetto alle politiche del 2022. Comprensibilmente, Meloni vuole riscuotere l’esito elettorale al tavolo delle trattative per le nomine. Tavolo da cui però è stata per ora lasciata fuori. Perché è vero che Meloni è l’unica che può vantare persino un aumento di consenso dopo un anno e mezzo di governo (e i governi, si sa, logorano), ma è anche vero che le ambiguità politico-esistenziali non possono durare per sempre, come le stanno facendo intendere i negoziatori europei. Il Presidente del Consiglio non ha però solo un problema di decidere cosa rappresentare e chi essere in Europa. Cosa fare, insomma, del consenso che ha riscosso. Anzi, è soprattutto in Italia che forza e debolezza sono lo yin e lo yang del suo governo, l’uno interdipendente all’altro. E in Italia, infatti, che il presidente del Consiglio ha, contemporaneamente, un problema di tenuta delle riforme di rilevanza costituzionale e di tenuta dei conti.

Partiamo dalle riforme costituzionali. La legge sull’autonomia differenziata è stata definitivamente approvata e la riforma del premierato ha concluso la prima lettura al Senato. Tutto bene, quindi, nell’iter legislativo, ma si tratta di riforme pensate per non funzionare. Alla prima mancano le risorse, non solo per il finanziamento dei Lep, ma anche per le misure perequative per le regioni che non accedono alla maggiore autonomia. Alla seconda manca la previsione della formula elettorale necessaria a garantire che dalle elezioni emerga una maggioranza chiara in Parlamento e un leader forte di un consenso effettivo. Due convitati di pietra che si può fingere di non vedere quando le riforme si approvano, ma che non possono ignorarsi quando le riforme si devono attuare. La separazione delle carriere dei magistrati, tra le riforme costituzionali, è il progetto più indietro nell’iter, ma all’indomani delle elezioni europee il ministro Crosetto, cofondatore insieme a Meloni e La Russa di Fratelli d’Italia e uno dei ministri a lei più vicini, ha dichiarato in maniera decisa che questa riforma cara alla risorta Forza Italia ha priorità di agenda sul premierato.

Le tre riforme marciano quindi spedite, ma fino a dove? La separazione delle carriere rischia di essere una riforma kamikaze ben sapendo (purtroppo) l’opposizione scomposta di una magistratura che ha già annunciato una «mobilitazione culturale» (sic! ). Le altre due recano in sé una fragilità nella fase attuativa data dalla apparente indifferenza al tema delle risorse per una, della legge elettorale per l’altra. Anche sui conti pubblici, c’è nebbia all’orizzonte. La Commissione europea ha appena proposto, non a sorpresa, la procedura per disavanzo eccessivo e il governo dovrà presentare subito dopo l’estate il piano di rientro. Non sarà facile imboccare un percorso di rientro che vale, a quanto pare, una decina di miliardi. E non sarà facile neanche spiegarlo a elettori assuefatti da un decennio di contro-austerità. Le leggi di bilancio finora composte dal ministro Giorgetti hanno mostrato una buona consapevolezza del problema del debito. E questo è un elemento di forza. Ma le regole europee nel nuovo patto di stabilità richiedono una capacità di confronto negoziale con l’Europa in cui il Presidente del Consiglio non potrà semplicemente invocare la forza del consenso ottenuto alle europee.

Giorgia Meloni ha mostrato finora un’ottima capacità di tenuta politica ed è possibile che abbia in mente uno schema dì lavoro per il futuro che ai più, compresa chi scrive, sfugge. Tuttavia, la strategia politica è qualcosa di diverso dall’arte del governo. La prima richiede un equilibrio da funamboli, la seconda una resistenza da maratoneti. Non è peregrino chiedersi se Meloni sia dotata più dell’uno che dell’altra. In fondo, la classe dirigente di partito di oggi, per quanto preparata e capace, è cresciuta all’idea che il consenso si alimenta più per delegittimazione che per costruzione, più nell’immediatezza degli annunci che nella solidità degli obiettivi.

Nemmeno le riforme costituzionali sono rimaste immuni a questa idea, cosa che ha impedito, anche a un governo che lavora su un orizzonte di legislatura, di cercare un maggior confronto con le opposizioni per evitare prima di tutto la difficile prova referendaria. Al contrario, proprio l’affidamento al legame diretto col popolo sembra caratterizzare sia Meloni che Schlein. La prima, ritiene che l’elezione diretta del premier sia la madre di tutte le riforme e non teme troppo, evidentemente, il referendum. La seconda, da par suo, preferisce l’opposizione di piazza a quella parlamentare. Questo continuo appello al popolo, in modi diversi ma con simile intento legittimante, può forse bastare all’arte dell’opposizione, ma non a quella di governo. Proprio come le indubbie capacità di leader di partito non bastano ad essere leader di governo.

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