Risanare Atac: Sei domande a Raggi

Atac di fatto è una società fallita, che come ha riassunto l'ultima analisi a riguardo dell'Istituto Bruno Leoni

13 Settembre 2016

L’Unità

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Insieme al caso Ama è esploso a Roma, ampiamente annunciato, quello di Atac, l’azienda pubblica dei trasporti capitolini. Due aziende e due attività che per la loro importanza sulla vita quotidiana della città, rappresentano sicuramente una grande sfida per la nuova giunta pentastellata, chiamata alla prova del governo della capitale. Perché la situazione è arrivata a questo punto? La risposta la sanno tutti, ma a quanto pare ciò non basta per affrontare i problemi ed iniziare a risolverli. Atac a differenza di Acea (che invece rappresenta un esempio virtuoso di utility nazionale ed internazionale) non ha affrontato il mercato in nessun modo, né tramite gara né tramite quotazione in Borsa. Il contratto di servizio e i vari accordi fra Comune ed azienda e fra azienda e lavoratori sono frutto di una stratificazione decennale senza nessuna forma di «confronto concorrenziale» anche virtuale o azione di Autorità di regolazione locale e nazionale. Questa «diabolica e sbagliata» dinamica proprietario/gestionale si è perseguito più il consenso (manager accondiscendenti, assunzioni, indotto, accordi sindacali generosi) che l’efficienza gestionale e la qualità del servizio. Da parte di tutte le amministrazioni e di tutte le maggioranze.

Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: Atac di fatto è una società fallita, che come ha riassunto l’ultima analisi a riguardo dell’Istituto Bruno Leoni, dal 2009 al 2015 ha perso oltre un miliardo e 200 mila euro, ha ricevuto 5 miliardi di euro di contributi pubblici dei quali ben 4 sono andati al personale, dunque senza essere investiti nel riammodernamento del parco bus, con parametri di efficienza ed efficacia fuori da ogni benchmark, fortemente sindacalizzata e con una capacità di ricatto alla città formidabile come dimostrano i cicli di «malattia» o «rottura dei mezzi» a orologeria. Fenomeni tipici di molte imprese pubbliche ma che nel caso di Atac, così come di Ama, assumono caratteri giganteschi, con una diseconomia di scala evidente.

Cambiare le cose una volta arrivati a questo punto non è facile e comunque non è rapido. Occorre una scelta politica chiara da parte dell’amministrazione romana 5 stelle che ancora tarda ad arrivare e che anzi appare per le tante polemiche di queste settimane davvero lontana: come concedente del servizio, come azionista dell’azienda e come rappresentante degli interessi diffusi dei cittadini.

Il ricorso al mercato è un’ipotesi possibile. La nuova normativa sui servizi pubblici locali prevede bacini ottimali e una preferenza per la gara. Anche la privatizzazione parziale dell’azienda può consentire obiettivi di efficienza e gestione manageriale. Scelte che però presuppongono un almeno parziale «risanamento» delle condizioni gestionali ed economico-finanziarie dell’azienda stessa. Non si vende e non si fa una gara se la situazione è così catastrofica.

Allora occorre prima di tutto un piano di alcuni anni teso a risanare Atac e a riportarla entro valori di benchmark ragionevoli, con un management esclusivamente orientato alla logica di impresa, quindi, indisponibile in modo assoluto ad ascoltare indicazioni politiche o elettoralistiche, e con una rivisitazione degli accordi sindacali ragionevole e moderna (il sindacato ha responsabilità importanti in questo cogestione patologica della società e deve prendersi le sue responsabilità). Con una ridefinizione degli accordi economici fra il Comune e l’azienda (contratto di servizio, regolazione locale e nazionale) che puntino ad avvicinare le condizioni economiche di questa fase a quelle prevedibili una volta affrontato il mercato. Ultima cosa, forse la più importante: un piano cittadino per la mobilità pubblica che consenta ad un’azienda risanata di funzionare in una delle città più congestionate d’Europa. Quindi, corsie preferenziali, autobus nuovi, innovazione nella infomobilità e nel ticketing, qualità dei servizi lavorando in modo energico sull’evasione, integrazione modale con treni, metro, care bike sharing, piste ciclabili ed aree pedonali. Insomma quello che fa ogni capitale europea moderna.

Il nuovo governo della città è capace e disponibile a questa sfida? Ha la forza di nominare un management autorevole ed autonomo? Riuscirà a non interferire nella gestione e a collaborare ad un piano industriale di lacrime e sangue ma di risanamento? Avrà la forza di sostenere una trattativa sindacale difficile al fianco dell’azienda su punti qualificanti ma forse impopolari? Riuscirà a fare un piano urbano del traffico che tolga spazio alle auto private a vantaggio del trasporto pubblico sostenibile? E alla fine di un percorso di risanamento è disponibile a fare una gara o ad aprire l’azienda al mercato privato?

Inutile girarci intorno. O la sindaca Virginia Raggi darà rapide risposte, oppure sarà inghiottita dalla stessa macchina che ha usato per il consenso.

Da L’Unità, 13 settembre 2016

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