31 Luglio 2023
Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Politiche pubbliche
In Italia i salari sono bassi. Paghiamo vent’anni di bassa crescita. Una legge sul salario minimo è, nel migliore dei casi, virtue signalling. È uno strumento per i politici per provare che si curano del problema, salvo evitare di prendere davvero il toro per le corna. Un minimo di legge farebbe poco o nulla per cambiare la dinamica dei salari, se fissato a valori troppo elevati potrebbe paradossalmente spingere il lavoro nero, ma i nostri parlamentari potrebbero dire di essersi occupati dei più deboli.
Una ricerca del centro studi Adapt ha guardato le remunerazioni previste dai contratti collettivi nazionali (su cui andrebbe a incidere la proposta di tutti i partiti d’opposizione, meno ItaliaViva) e ha constatato che i rider con bici livello I, spesso considerati il modello di nuovo lavoro servile per antonomasia, guadagnano già, col contratto nazionale della logistica, 11,20 euro all’ora. Passando in rassegna undici contratti collettivi nazionali fra i più applicati, Michele Tiraboschi e Francesco Lombardo hanno constatato che la media di retribuzione è di 10,29 euro all’ora.
I Paesi Ue dove c’è il salario minimo tendono a fissarlo a livelli più bassi del salario mediano dei lavoratori a tempo pieno, per evitare effetti sulla domanda di lavoro: una remunerazione determinata per legge a un livello troppo elevato dissuade dall’assumere soprattutto lavoratori poco qualificati, i più «deboli». La proposta delle opposizioni fissa l’asticella a oltre il 70% del salario mediano, un valore assai più alto della media Ocse e della soglia suggerita dall’Ue (il 60%).
L’Italia non ha un salario minimo fissato per legge, ma la grande maggioranza dei lavoratori rientra in un contratto collettivo nazionale. A questi ultimi è lasciato di determinare la remunerazione minima di tutta una serie di figure professionali. Ci si arriva attraverso la negoziazione fra le parti, anziché sulla base di una legge. Restano fuori ovviamente i lavori irregolari e tutto quel che sta fra il nero e il grigio. Ma, per definizione, si tratta di rapporti che sfuggono alle norme. Fa impressione il legislatore che pensa a legiferare per chi sa che gli disubbidirà.
La discussione sul salario minimo sconta in realtà il più duro a morire degli errori concettuali. In Italia c’è un problema che è difficile non riconoscere come tale: i salari, anche rispetto a Paesi tranquillamente paragonabili al nostro, sono bassi e da anni sostanzialmente stagnanti. A fronte di un problema, si pensa che la soluzione appropriata risieda in una nuova legge. Obblighiamo i datori di lavoro a pagare un tot all’ora, E lo faranno. Fosse così facile. Solo un milione e mezzo di italiani ha un reddito superiore ai 60 mila euro annui e oltre 22 milioni non superano i 20 mila. Il problema non sono i fenomeni estremi ma il complesso dei salari italiani. A determinarli non sono le norme: non è che noi guadagniamo quanto la legge (o il contratto collettivo) dispone.
Ci sono tante ragioni per le quali guadagniamo così poco, ma la principale è che la velocità di crociera della nostra economia è stata molto bassa per circa trent’anni. Una crescita economica robusta tenderà magari a far crescere anche le diseguaglianze, ma la stagnazione tiene tutti al palo. Si salvano, ovvero stanno un po’ meglio, quelli che sono in Italia ma è come se non lo fossero: cioè le imprese fortemente esportatrici e coloro che vi lavorano, che si confrontano con mercati e con un mercato delle competenze in larga misura extra-italiano.
Fare un salario minimo per legge, dunque, nella migliore delle ipotesi non serve a nulla: se si fissa l’asticella sotto al livello retributivo già garantito dai contratti collettivi. Nella peggiore delle ipotesi, rende più difficile ai lavoratori meno qualificati (proprio quelli che la sinistra più dovrebbe proteggere: persone con bassa scolarizzazione, immigrati) trovare lavoro, perché sottrae loro la possibilità di agire sul prezzo della propria manodopera. In ogni caso, aggiunge una norma in più, che potrà essere manipolata dai governi successivi. Sicuramente, porta la discussione pubblica su un binario morto.
Anziché giocare coi minimi di legge, bisognerebbe provare a prendere il toro per le corna e mettere in atto delle misure per la crescita. E, parimenti, bisognerebbe tenere conto che il problema non sono solo i salari nominali ma, con l’inflazione che morde, quelli reali. Nove euro di un anno fa non sono nove euro di oggi, come sa chiunque frequenti il banco delle verdura al supermercato. Qui sì che servirebbero sindacati capaci di fare il loro mestiere, cioè di negoziare aumenti coi datori di lavoro. E associazioni datoriali capaci anche quelle di fare il loro mestiere, cioè di cedere sui salari chiedendo in cambio flessibilità e più disponibilità per iniziative che portino a maggiore efficienza sul posto di lavoro.
Il governo dovrebbe sostenere le banche centrali nella lotta all’inflazione, ovvero al carovita, e cercare di liberare risorse come può: abbassando le imposte, nel limite dei vincoli di bilancio, ripensando l’assistenza in modo da essere più vicino a chi sta peggio. È una strada difficile, tutta in salita, fatta di lavoro di lima in attesa che il mondo si riprenda dalla sbornia monetaria degli scorsi anni e traguardando riforme che facciano ripartire la crescita nel lungo periodo. Oppure si può fare demagogia e promettere che con una legge si risolvano tutti i problemi.
Da Corriere della Sera–Economia, 31 luglio 2023