Cosa vuol dire che Open Arms è un processo politico? Ci sono due livelli di risposta, uno tecnico e uno concettuale. Tecnicamente, il ministro Matteo Salvini, all’epoca dei fatti ministro dell’Interno, è stato accusato dei delitti di sequestro di persona aggravato e di rifiuto di atti d’ufficio per non aver dato seguito, dal 14 al 20 agosto 2019, alle richieste di sbarco in porto sicuro provenienti da una nave ONG che aveva soccorso 147 migranti in mare. L’accusa è per reati commessi in forza e in occasione del suo ruolo politico, tanto che la magistratura, per poter procedere, ha dovuto attendere l’autorizzazione del Senato, concessa nonostante il parere contrario della giunta per le autorizzazione a procedere della medesima camera e in maniera diversa da quanto deciso mesi prima, in un clima più conciliante di governo, nell’analogo caso della nave Diciotti, che coinvolgeva lo stesso ministro. Per forza di cose, quindi, è un processo politico: politico ne è l’imputato, ai tempi dei fatti e ancora oggi; politica la fattispecie. Ma politico lo è anche concettualmente.
Diceva Salvatore Satta, uno dei più grandi processual-civilisti italiani, che i processi politici sono quelli in cui «sembra che due giusti si contrappongano, che distinguere il giusto dall’ingiusto non si possa talora se non sulla linea della forza, in cui non si sappia chi sia l’accusato e l’accusatore». Open Arms non è semplicemente un confronto giudiziario tra un giudice che deve esaminare le prove e decidere e un imputato che deve difendersi e provare a convincerlo della sua innocenza. E’ una ricostruzione della verità processuale molto più intensa, dove le ragioni addotte dall’uno sul dovere di difendere la patria dibattono con pretesa di pari merito con le ragioni addotte dall’altro sul dovere di soccorrere vite in pericolo. L’imputato non si difende, ma accusa. Accusava, da ministro dell’Interno prima e da leader della Lega oggi, gli altri Stati di fare i loro interessi e chiuderei porti più cinicamente di quanto faccia l’Italia, l’Europa di lasciare il nostro paese solo a fronteggiare l’immigrazione, le ONG di facilitare il traffico illecito di migranti, la magistratura di averlo reso vittima di una giustizia ingiusta perché indifferente alle ragioni di sicurezza interna. L’appoggio ottenuto in primo luogo dalla Presidente Meloni corrobora la prosecuzione di questa accusa e rende politico in senso concettuale il processo.
Dal punto di vista del rapporto tra circuito politico e circuito giudiziario, questo sembra un punto originale. La mediatizzazione delle decisioni di quei giorni, di cui il ministro dava ampio resoconto sui social, è divenuta mediatizzazione del processo, come dimostrano il video registrato da Salvini (e mandato persino sulla Rai) e il post pubblicato dalla Presidente Meloni poco dopo le conclusioni rassegnate dalla Procura della Repubblica presso il tribunale di Palermo.
Nessuno, si vuole sperare nemmeno Salvini, nega che il soccorso in mare sia tra gli obblighi consuetudinari più antichi. Ma la condotta di diniego del ministro era strumentale a portare a compimento la politica dei porti chiusi. In quel compimento, era probabilmente calcolata fin dall’inizio l’eventualità di un processo, che avrebbe anzi portato ancor più forza alle ragioni dell’imputato, rendendolo la vittima sacrificale della giusta lotta alle ONG, ritenute responsabili di favoreggiare il traffico di esseri umani. La condotta sempre più isolata che ebbero il ministro Salvini e l’allora suo capo di gabinetto Matteo Piantedosi era, paradossalmente, utile alla causa: «siamo soli contro tutti – twittava il ministro – Contro Ong, tribunali, Europa e ministri impauriti».
Si usa dire, perché corrisponde a vero, di un risalente conflitto tra politica e magistratura nel nostro Paese. Da ultimo, lo documentano le quasi 1000 pagine degli storici Marcello Flores e Mimmo Franzinelli su magistratura, politica e processi, pubblicate per il Saggiatore. Si usa anche dire, sempre perché corrisponde a vero, che i processi – ahi noi – si svolgono ormai nelle piazze mediatiche. Ma il caso Open Arms è diverso perché inverte le cose rispetto a quanto siamo abituati a vedere. In questo caso, infatti, il circo mediatico-giudiziario è stato attivato e viene sollecitato da chi, normalmente, è vittima di questo circuito. E l’imputato a volere la mediatizzazione e la immediatizzazione dei messaggi, poiché l’attività oggetto di giudizio è vissuta dallo stesso come questione che tocca la sua stessa sopravvivenza politica. Dalla vicenda Open Arms si sono avvicendati tre governi. L’attuale, di cui Salvini è vice presidente del Consiglio, ha smesso di ripetere l’espressione “porti chiusi” ma è pur sempre emanazione delle forze politiche che hanno giurato guerra alle ONG e al favoreggiamento dell’ingresso clandestino di immigrati. Sono loro ad aver bisogno di tenere accesa l’attenzione, di usare i media per serrare i ranghi dell’elettorato intorno a quello che è rimasto l’ultimo e più essenziale punto di distinzione politica, la questione migratoria.
Il rispetto delle vite umane, il dovere di salvare chi è in pericolo, l’obbligo di difesa della Patria, la tutela della sicurezza nazionale sono però questioni irriducibili alla politica dei social. Se politica deve essere, merita che sia fatta attraverso idee e programmi, non video e post. Con questi, si anima il conflitto, ma non si risolvono i nodi né della difesa della patria né del rispetto delle vite umane. Meloni di governo ha mostrato di esserne consapevole, molto più del suo profilo su X e del suo alleato.