4 Febbraio 2016
Il Giornale
Carlo Lottieri
Direttore del dipartimento di Teoria politica
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Un articolo apparso ieri sul Financial Times utilizzava una ricerca di Jonathan Haidt per richiamare l’attenzione su un tratto caratteristico dell’America di oggi: la quasi totale egemonia della sinistra nella cultura e specialmente nelle università. Se quello studio nel 1989 si collocava a sinistra circa il 40% dei docenti statunitensi, mentre oggi la percentuale è salita fino al 60%. In qualche ambito, poi, il prevalere dei liberal è impressionante, se si considera che l’89% degli psicologi si colloca nel centro-sinistra e meno del 3% nel centro-destra. Non stupisce allora che nel 2012 il 95% degli accademici abbia votato Barack Obama e solo l’1% gli abbia preferito il moderato Mitt Romney.
È allora opportuno prendere atto che siamo forse al punto finale di un lungo processo storico che ha visto radicalizzarsi – nelle università degli Usa – tutta una serie di concezioni in vario modo avverse ai valori della tradizione libertaria americana: dal socialismo allo strutturalismo, dal keynesismo al postmoderno, dall’egualitarismo all’ambientalismo, solo per citarne alcune. Il presente è figlio di un passato ben noto e oggi molti nodi vengono al pettine.
Quanti amano la cultura liberale ricordano spesso come uno dei maggiori economisti del Novecento, Ludwig von Mises, quando approdò in America dopo essere stato costretto a lasciare l’Europa non ebbe alcuna possibilità di avere una cattedra. Anche uno dei suoi allievi migliori, Murray N. Rothbard, che più di ogni altro ha contribuito a elaborare il libertarismo di secondo Novecento, per molti anni ha insegnato in un centro tutt’altro che prestigioso (il Brooklyn Polytechnic Institute). Se questo fu il destino del liberale Mises e dei suoi allievi, una diversa accoglienza avevano trovato quei marxisti che negli anni Trenta e Quaranta avevano traversato l’Atlantico. È sufficiente ricordare il francofortese Herbert Marcuse, destinato a diventare un guru della New Left e che passò da un’università prestigiosa all’altra: prima alla Columbia, poi a Harvard, quindi alla Brandeis e infine all’University of California di San Diego. Le università del nostro tempo in cui studenti e docenti si appassionano per il socialista Bernie Sanders sono quindi eredi di una vecchia storia. Per giunta, il «politicamente corretto» di oggi è erede di un autentico rigetto della propria tradizione, come ammise pure un progressista a tutto tondo come Arthur M. Schlesinger Jr ne La disunione dell’America. In molti college si presenta come un peccato originale il fatto che i Padri Fondatori fossero tutti bianchi, maschi, proprietari, indifferenti alle questioni ambientali, padroni di schiavi, dominati da credenze religiose e morali. Quando si moltiplicano i corsi sulla questioni di genere e sulle colpe del passato, non c’è poi da sorprendersi se l’élite culturale statunitense è sempre più distante dal resto del Paese.
Fuori dai campus, in effetti, la società americana non è così ostile alle ragioni della libertà. E non a caso da decenni è viva un’interessante riflessione sui motivi dell’anticapitalismo universitario. Alcune ragioni del declino di quella cultura americana che tra Sette e Ottocento considerava fondamentale l’autonomia dei singoli sono comunque riconducibili alla trasformazione del mondo intellettuale occidentale nel suo insieme. La marginalizzazione del liberalismo classico che ha contraddistinto l’evoluzione dell’Europa non ha lasciato indenne l’altro lato dell’Atlantico. Quando la riflessione filosofica ad esempio è stata progressivamente dominata da figure come Friedrich Nietzsche, Martin Heidegger o Jacques Derrida, non ci si poteva attendere che in America non succedesse nulla.
Oltre a ciò, negli ultimi decenni gli Usa hanno visto crescere sempre più il ruolo dello Stato e il legame tra potere e cultura. Se – come diceva Lord Acton – il potere tende a corrompere e il potere assoluto corrompe assolutamente, non sorprende che la classe intellettuale spesso sia funzionale agli interessi di un ceto politico che chiede solo più potere, tasse, spesa, regolazione. Gli statalisti hanno seminato a lungo e ora raccolgono i frutti di quel lavoro.
Da Il Giornale, 4 febbraio 2016