14 Febbraio 2022
L'Economia – Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Diritto e Regolamentazione Teoria e scienze sociali
Il caso Ucraina riapre il dibattito sull’uso delle penalizzazioni che sfiancano il Pil e la società, non gli oligarchi nel mirino della comunità internazionale
Il futuro dell’Ucraina, il futuro della Nato. In queste settimane si sta giocando una partita complessa. Nei Paesi democratici, gli elettori non sono granché disponibili a fare la guerra. Neppure negli Stati Uniti, dove da Obama in avanti le elezioni premiano presidenti che si dicono pronti a ridimensionare il ruolo delle forze armate americane nel mondo. Anche per questo, le sanzioni sono lo strumento tutt’oggi più gettonato. Se Putin invadesse l’Ucraina, non dovrebbe aspettarsi una risposta militare: ma tutta una nuova serie di attacchi «economici», volti a precludergli l’accesso ai mercati internazionali e, pertanto, a erodere la sua leadership attraverso il malcontento inevitabile in una società impoveritasi.
Uno studio di Anders Aslund e Maria Snegovaya per l’Atlantic Council sottolinea come le sanzioni varate nel 2014 dopo l’invasione della Crimea abbiano colpito severamente l’economia russa: hanno ridotto l’accesso al mercato internazionale del credito e gli investimenti diretti esteri e potrebbero aver rallentato la crescita economica della Russia del 2,5-3% all’anno, cioè circa 50 miliardi di dollari all’anno. Sotto il profilo politico, è meno chiaro che le sanzioni abbiano avuto successo. L’esperienza ultracinquantennale dell’embargo a Cuba suggerisce che, se l’autocrate sa giocare bene le sue carte, non necessariamente l’isolamento economico gli si ritorce contro. Anzi, può diventare uno straordinario strumento di legittimazione: Davide contro Golia.
Richard Hanania, in un paper per il Cato Institute, sostiene che le sanzioni siano «inefficaci, immorali ma politicamente convenienti». Uno degli esempi portati da Hanania riguarda la Siria. Nel 2011, annunciando che «Assad se ne deve andare», Barack Obama aveva firmato un ordine esecutivo che proibiva l’importazione di petrolio siriano e rendeva illegale per qualsiasi cittadino americano investire in Siria o fare affari col suo governo. Il mese dopo anche l’Ue vietava le importazioni di petrolio siriano. Queste sanzioni non sono riuscite a rovesciare il regime siriano ma hanno contribuito alla distruzione di un’economia già stremata dalla guerra. Secondo le stime del Fondo monetario, fra il 2010 e il 2015 la Siria ha perso i1 75% del suo Pil.
In questa impressionante distruzione di ricchezza conta, ovviamente, la guerra ma pesano anche le sanzioni e l’isolamento economico. Non si è trattato di un’eccezione: uno studio del 2015 ha esaminato l’effetto delle sanzioni delle Nazioni Unite sui Paesi che ne sono stati colpiti fra il 1976 e il 2012. Suggeriva che la mancata partecipazione allo scambio internazionale sia costata loro oltre due punti di Pil all’anno. E’ un successo di queste misure? Fino a un certo punto.
L’idea è che impoverendo un Paese si faccia scattare un cambiamento politico. Ma se ciò non avviene (come nei casi di Cuba, dell’Iraq, più recentemente dell’Iran, del Venezuela, della Russia) è bene riflettere che mentre il risultato, atteso, dell’impoverimento economico è centrato, quello del regime change tende a non verificarsi. Se le cose stanno così, è difficile giustificare misure che, peggiorando gli standard di vita delle persone, realizzano un male che neppure si rivela necessario.
Le amministrazioni americane, democratiche o repubblicane, tendono a sottolineare come le sanzioni «moderne» siano diverse dalle forme tradizionali di protezionismo, perché tendono a colpire gli interessi finanziari o sono persino «ritagliate» su particolari attori del sistema economico. Ma è difficile che proibire l’accesso ai mercati esteri non abbia ripercussioni più ampie. L’idea che l’interesse degli oligarchi, per esempio, sia distinguibile da quello del popolo russo e possa diventare l’obiettivo di sanzioni «chirurgiche» è allettante ma bisogna stare attenti e considerare le interconnessioni e le ramificazioni di un’economia moderna.
Si potrebbero tentare almeno due messe a punto, di questo controverso strumento. Da una parte, se sanzioni debbono essere, almeno deve essere chiaro l’obiettivo specifico: il che vuol dire che i canali della diplomazia non si debbono chiudere, ma anzi è necessario continuino a funzionare. Che le sanzioni ai russi siano evidentemente ed esplicitamente vincolate al loro comportamento in Ucraina, per esempio, e non comincino a vivere di vita propria. Le sanzioni «individuali», al netto dei rischi ricordati poc’anzi, potrebbero essere più efficaci. A patto che anch’esse siano «individuali» davvero: è stato il caso delle misure prese contro il congolese Joseph Kabila e il suo entourage nel 2017. La repressione degli avversari politici costò a Kabila e ai suoi la libertà di movimento e la possibilità di entrare in relazioni economiche con imprese statunitensi ed europee.
Se sanzioni debbono essere, che siano il più precise e ben definite: negli obiettivi individuali e negli scopi politici. Sotto questo profilo, obiettivi «umanitari» e autointeresse dei Paesi «sanzionanti» sono allineati: pensiamo, per esempio, all’idea, circolata nei giorni scorsi, di interdire alle imprese energetiche russe il sistema SWIFT. Sicuramente l’effetto sull’economia russa sarebbe dirompente, ma lo stesso si può dire delle ripercussioni sui Paesi occidentali, i quali non sarebbero più in condizione di comprare il gas. L’esperienza suggerisce che non sarebbe necessariamente un colpo mortale per Putin, il quale saprebbe usare questo assedio per rinsaldare il suo consenso. In compenso, ci faremmo almeno altrettanto male.
da L’Economia – Corriere della Sera, 14 febbraio 2022