“Ehi, Fat Tony”. Tony Ciccione è un personaggio dei Simpson, il boss di Springfield, l’abito grigio, le esibite rotondità, il sigaro, l’accento italiano. Negli anni Settanta e Ottanta “Fat Tony” era soprattutto il soprannome di Anthony Genovese, uno dei boss della famiglia Genovese, la stessa di Lucky Luciano. Non deve aver fatto grande piacere a Nino Scalia, che tanto magro non era mai stato e all’anagrafe faceva Antonin, venir apostrofato così dal collega Frank Michelman, nel bel mezzo di un simposio di giuristi. Quando Scalia arriva alla Corte suprema, scelto da Reagan nel 1986, la comunità italoamericana è ancora pizza, mafia e mandolino. Lo staff del presidente ha messo da tempo gli occhi su Scalia, lo avevano portato alla corte d’appello del District of Columbia, ideale trampolino di lancio verso il pinnacolo del potere giudiziario. Ma l’amico più caro di Scalia e il suo lobbista più determinato, Larry Silberman, già Deputy Attorney General, viceministro della giustizia, con Nixon, suggerisce che per 30 milioni di italoamericani un giudice della Corte suprema sia un simbolo col quale identificarsi ancor più di quanto lo sarebbe un presidente italoamericano. La confutazione vivente dello stereotipo mafioso.
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