Scambi mondiali da rianimare. Basta il club delle democrazie?

Anche se le teorie dei critici della globalizzazione si sono rivelate errate, l'atteggiamento verso questo fenomeno resta ostile

24 Giugno 2024

Corriere Economia

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

I critici della globalizzazione stanno dappertutto, a destra come a sinistra. Un tempo le loro ragioni erano diverse. Da una parte si temeva l’omologazione delle identità, di un venir meno delle sensibilità nazionali e locali in un «centro commerciale globale» tutto desolatamente uguale. Dall’altra si paventava l’effetto della concorrenza fra giurisdizioni sul welfare state, che avrebbe perso base imponibile e dunque risorse. Poi non è accaduta né una cosa né l’altra, l’hamburger non ha rimpiazzato la cotoletta alla milanese e gli Stati sociali non sono stati costretti a ridimensionare le proprie ambizioni. Destra e sinistra hanno cambiato argomenti. L’atteggiamento verso la globalizzazione resta ostile.

A difenderla restano pochi liberal-liberisti, come quelli riuniti attorno al Cato Institute di Washington. Che però cerca alleati e di recente ha voluto presentare tesi conservatrici e progressiste favorevoli alla globalizzazione (www.cato.org/defending-globalization).

Cominciamo dalle prime, che negli Stati Uniti sono state a lungo le più ovvie. Jeb Hensarling, per otto legislature congressman del Texas, non a caso, rispolvera l’icona di Ronald Reagan che, ammette, aveva proposto alcune misure protezionistiche in funzione anti-giapponese, ma esse «facevano parte del tentativo di sventare l’adozione da parte del Congresso di provvedimenti ben peggiori e di spingere per un’ampia liberalizzazione, con lo US Canada Free Trade Agreement (il predecessore del Nafta) e l’avvio delle trattative per la creazione dell’Organizzazione mondiale del commercio. Durante la sua presidenza gli scambi raddoppiarono». Oggi i repubblicani sposano tesi molto diverse. Sono divisi su molte cose, ma uniti nel voler ridisegnare le reti del commercio internazionale. I neo-conservatori, internazionalisti e fautori dell’egemonia statunitense a tutti i costi, vorrebbero limitare gli scambi al club delle democrazie, in funzione anticinese. A loro Hensarling ha buon gioco nel rispondere che i dazi scaricati addosso alla Cina dall’amministrazione Trump non sembra ne abbiano influenzato la strategia geopolitica nel senso di una maggiore collaborazione con gli Usa, o di un minore interesse verso Taiwan. Il costo, in parte pagato dal consumatore americano, non sembra essersi accompagnato al beneficio atteso. I trumpiani, che hanno meno nostalgia di un ordine unipolare, ma perseguono una politica commerciale più aggressiva, imputano alla globalizzazione l’impoverimento della manifattura americana. Hensarling replica che metà delle merci importate negli Usa sono cose che servono a fare altre cose: beni intermedi, materie prime o componenti che alimentano l’industria americana.

A fornire buoni argomenti «di sinistra» per la globalizzazione sono stati invece chiamati Inu Manak, che ha lavorato presso lo stesso Cato Institute, assieme con Helena Kopans-Johnson, una giovane studiosa del Council for Foreign Relations. Le due partono dalla descrizione della globalizzazione che l’amministrazione Biden ormai ha fatto propria, quella di una «corsa al ribasso» alla quale rispondere con forti investimenti nell’industria nazionale. E la dottrina che aveva enunciato per primo il consigliere per la sicurezza nazionale di Biden, Jake Sullivan. La convergenza coi neo-conservatori americani è evidente: gli uni e gli altri immaginano che gli scambi internazionali possano rattrappirsi, tornando a svilupparsi, in una specie di scenario da neo-guerra fredda, solo all’interno del club delle democrazie. L’Economist, giustamente, in un suo articolo fece notare che gli scambi sono tanto più interessanti e utili quanto più i Paesi coinvolti sono diversi (lo stesso vale, su altra scala, per le persone). Se le controparti si assomigliano molto, se le loro economie sono fatte di imprese che fanno cose simili, avranno meno motivo per scambiare.

Manak e Kopans-Johnson chiamano però in causa la storia del Partito Democratico. Che nelle sue fila poteva vantare Cordell Hull, segretario di Stato con Roosevelt, vincitore del premio Nobel per la pace e figura fondamentale per lo sviluppo, pure successivo aIla sua uscita di scena politica, degli accordi Gatt nel 1947. Citano una conferenza di John Fitzgerald Kennedy, nella quale il Presidente si diceva convinto che «possiamo confidare sul fatto che anche le nazioni più ostili accetteranno e rispetteranno quegli obblighi dei trattati, e solo quegli obblighi, che vanno nel loro interesse». Accordi di libero scambio, che creano benessere per entrambe le parti coinvolte, sono dunque il fondamentale, primo mattone di una diplomazia che voglia riannodare legami fra diversi: non separarli ulteriormente.

L’ideale progressista di una maggiore eguaglianza non è messo in discussione, ma esaltato dalla globalizzazione degli scambi. E’ grazie a quest’ultima se la quota della popolazione mondiale che vive sotto la soglia della povertà è finalmente sotto il 10% (sempre troppo, va da sé, ma trent’anni fa, con una popolazione inferiore di due miliardi di abitanti, sfiorava il 40%). E le stesse famiglie americane ne hanno tratto grande vantaggio: «in assenza della liberalizzazione degli scambi avvenuta nel dopoguerra, nel 2022 il PIL degli Stati Uniti sarebbe stato inferiore di 2.600 miliardi di dollari (22.900 miliardi, anziché 25.500), il che si traduce in un maggior benessere medio per famiglia pari a circa 19.500 dollari».

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