Le scelte del centrodestra, dirsi liberale non basta

Il problema della componente moderata non è tanto decidere sulla federazione, ma ricominciare a dire qualcosa su finanza, economia, spesa

13 Giugno 2021

Corriere della Sera

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

La politica non è solo una faccenda di modi. Non è scontato che la federazione del centrodestra sia destinata a realizzarsi. Se ciò avvenisse, però, sarebbe una sorta di fusione per incorporazione: il partito egemone della coalizione, la Lega, «acquisterebbe» Forza Italia.

Nell’operazione, l’obiettivo dei leghisti è anche quello di riposizionarsi su una linea più centrista, riducendo quei sospetti di estremismo e inaffidabilità che derivano dalla retorica sovranista con cui Salvini ha riscattato dall’oblio il suo partito. Fra i forzisti c’è chi teme sia a rischio, con l’autonomia di FI, la sopravvivenza di una componente liberale del centrodestra.

Il guaio è che l’identità di un gruppo politico si costruisce attraverso proposte, idee, iniziative. Piaccia o meno, la svolta a sinistra del PD avviene all’interno di una cornice culturale chiara. Lascia al centro uno spazio ancora più grande di quello che già c’era, ma per riempirlo non basta dichiarare di essere disponibili a farlo.

Il problema della componente liberale del centrodestra non è tanto la federazione, ma ricominciare a dire qualcosa. In passato, quando ha provato a marcare la propria identità, l’ha fatto sostanzialmente sul piano della collocazione internazionale. Se i populisti guardano a Russia e Cina, i moderati difendono la nostra collocazione nel mondo occidentale. Ma quella collocazione riguarda anche temi di politica economica, l’atteggiamento verso l’Unione europea e verso la globalizzazione. Questo dovrebbe essere il terreno d’elezione di un partito fondato sullo slogan «meno tasse per tutti» e invece è il campo nel quale più ha deluso. Su questioni fortemente segnaletiche, come la protezione brevettuale dei vaccini Covid, la sinistra recita la sua parte e attacca le imprese orientate al profitto. Qualcuno si è accorto che la destra le abbia difese?

Sulla finanza pubblica, non c’è chi metta in guardia sui rischi di un aumento incontrollato di spesa e debito pubblico. La questione è percepita come intrinsecamente impopolare. In realtà non tutti, nemmeno in una fase come questa, beneficiano della spesa pubblica in misura superiore a quanto contribuiscano, oggi o domani, a pagarne il conto. Se la sinistra ha tradizionalmente il ruolo di rappresentare il pubblico impiego, la destra dovrebbe giocare quello di sindacato dei contribuenti. Solo che questo sindacato non è credibile se promette tagli alle tasse ma non spiega quali spese ridurre per finanziarli.

Sui vincoli alla attività economica, tutti parlano di semplificazioni. Eppure continuiamo a introdurre ulteriori bardature alla libertà d’impresa. Hai voglia a semplificare, magari con provvedimenti estemporanei, se il legislatore è permanentemente impegnato a produrre nuovi vincoli.

Prendiamo un caso concreto: il blocco dei licenziamenti. La misura era nata con intenti lodevoli e doveva essere temporanea, ma in Italia nulla è stabile come il provvisorio. Gli esiti sono paradossali. Lo scorso anno, in un documento del Gruppo dei Trenta Mario Draghi aveva esortato a concentrare il sostegno alle imprese su quelle che potevano superare la crisi. Pare che la mediazione emersa fra le forze politiche sia mantenere il blocco proprio per i settori in maggiore difficoltà, cioè quelli che più avrebbero bisogno di ristrutturarsi. Impedirglielo significa pregiudicare la sopravvivenza di quelle aziende e rallentare il processo per cui almeno parte dei loro lavoratori potrebbe trovare diversa collocazione, in ambiti invece nei quali c’è ripresa. Se esiste una componente liberale del centrodestra, e della maggioranza, non avrebbe dovuto ricordare che proprio questo è il momento per tutelare i lavoratori, ma non necessariamente i posti di lavoro?

Sull’impronta dello Stato nell’economia, di nuovo l’accordo è pressoché unanime. Operazioni come la nazionalizzazione delle autostrade non sono state contestate nemmeno quando il centrodestra era all’opposizione del governo Conte. L’ubiquità della Cassa Depositi e Prestiti non ha incontrato la più flebile resistenza, in Parlamento.

Sul Mezzogiorno, ci si aspetterebbe una qualche riflessione sul tema del contratto nazionale. Maggiore flessibilità sui salari è necessaria per rilanciare l’occupazione al Sud. Invece la destra non dice nulla nemmeno sulle politiche di coesione, che sono state un cavallo di battaglia della sinistra.

In Italia piace pensare che il liberalismo sia appannaggio dei «moderati». Non è solo una questione estetica: la canotta esibita contro la cravatta ben annodata. È vero che la moderazione è anche una postura. Ma la moderazione è anzitutto moderazione nelle ambizioni con cui si esercita il potere. Presuppone un ragionamento sui limiti della politica, che non può tutto e molto spesso ottiene risultati opposti alle sue stesse intenzioni.

A sinistra, la pandemia ha fatto risuscitare l’ideologia. Alle idee debbono opporsi altre idee, brandire l’aggettivo liberale non basta.

dal Corriere della Sera, 13 giugno 2021

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