13 Settembre 2018
La Stampa
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Ieri il Parlamento europeo ha approvato la nuova direttiva sul copyright. Fra le altre cose, essa prevede che ogni Stato-membro debba assicurarsi che i produttori di contenuti, gli editori, ricevano compensi «consoni ed equi» per l’uso dei loro materiali da parte delle piattaforme on line. Semplificando, hanno vinto editori e partiti «tradizionali» e ha perso la strana coalizione formata dai cosiddetti «giganti del web» e dai partiti anti-establishment, fra cui Lega e Cinque Stelle. Questi ultimi, che solitamente hanno scarsa simpatia per il capitalismo, specie se americano, si erano allineati con le istanze della Silicon Valley.
Intanto, in Italia il ministro Di Maio annuncia una lettera alle società partecipate per indurle a smettere di fare pubblicità sui quotidiani. Si discute poi di eliminare l’obbligo di pubblicazione per la Pa (per esempio per gli avvisi di gara), con l’obiettivo dichiarato di colpire le imprese editoriali.
I cosiddetti populisti hanno per anni accusato i loro predecessori di voler asservire l’informazione: pensate alle polemiche, spesso condivisibili, sull’«occupazione» della Rai. Pensavamo fossero critiche, invece era un programma. L’attuale governo sta facendo esattamente ciò che rimproverava agli odiati Renzi e Berlusconi: prendere il controllo della Rai, usare la pubblicità delle partecipate a fini politici. Più in generale, se la Silicon Valley non ama né Donald Trump né i suoi epigoni europei, questi ultimi sono convinti che il loro successo dipenda dal superamento dei media tradizionali. Attraverso i social, essi costruiscono, giorno dopo giorno, quel rapporto diretto fra elettori e eletti che è un ingrediente essenziale della loro ideologia. L’obiettivo è quello di mettere in scena una democrazia senza bardature, dove la rigidità delle regole non è più un ostacolo alla reazione immediata alle sollecitazioni del «popolo». Che poi del popolo considerino solo la frazione che li inonda di «like», non importa. E non importa neppure che «fare le leggi», pure quando le fa il governo, continui a richiedere un tempo incommensurabilmente diverso da quello del web. Ciò che conta è dare l’impressione di un’attenzione istantanea.
Piaccia o non piaccia, la storia della democrazia è anche la storia dei giornali. Il dibattito politico ha bisogno di confrontarsi con un’opinione pubblica informata e vivace. L’opinione pubblica, sosteneva Walter Bagehot, è «l’opinione di quel signore calvo seduto in fondo all’autobus». Con questo, voleva dire che l’opinione pubblica non coincide necessariamente con le idee delle classi dirigenti, e nemmeno con quelle delle persone più colte: coincide con il pensiero delle persone «comuni» che vogliono dire qualcosa sul modo in cui vengono condotti gli affari pubblici ma sentono anche il bisogno di farlo a ragion veduta.
La libera stampa non è perfetta, come nulla è perfetto a questo mondo. Essa è però la precondizione di un’opinione pubblica informata: che ha bisogno di una polifonia di opinioni ma anche di chi metta risorse e competenze per dare notizie, soprattutto se sgradite a chi governa.
Più che le singole iniziative, colpisce quindi il disegno, la guerra ai giornali. Per alcuni è il sogno romantico della democrazia diretta, senza filtri. Quei «filtri» sono tuttavia indispensabili per avere una informazione non frammentaria, che consenta di conoscere davvero quel che viene deliberato ed eventualmente di reagire ad abusi e soprusi. C’è un motivo se il potere vuole avere un rapporto diretto col singolo individuo. E’ che il singolo individuo, apparentemente emancipato da tutte quelle strutture che si interpongono fra lui e il governo, in realtà è disarmato. Inerme. Il suddito ideale.
Da La Stampa, 13 settembre 2018