Se l'anticapitalismo viene da Hollywood

Tante contraddizioni in “Don't look up”, che vorrebbe essere profetico sulle conseguenze del legame tra politica e affari

6 Febbraio 2022

La Provincia

Carlo Lottieri

Direttore del dipartimento di Teoria politica

Argomenti / Teoria e scienze sociali

La figura di Peter Isherwell, l’imprenditore psicolabile che è tra i protagonisti di “Don’t look up” (il film diretto per Netflix da Adam McKay), rientra a pieno titolo in quell’ampia galleria di miliardari cinici e/o folli che popolano il cinema americano. Per decenni Hollywood ha realizzato utili a molti zeri con produzioni che demonizzavano ogni profitto. Quasi sempre entro quelle sceneggiature chi gestisce grandi aziende ha la moralità di un Gordon Gekko, che in “Wall Street” (diretto nel 1987 da Oliver Stone) ha incarnato uno squalo della finanza senza valori né principi.

In questa tradizione, i tycoon sono tutti eredi di Ebenezer Scrooge: inventato nel diciannovesimo secolo da Charles Dickens in “Canto di Natale” e poi riformulato da Walt Disney in quel personaggio da noi ribattezzato come Paperone. Sulla stessa scia si collocano sia Montgomery Burns (il dispotico capo di Homer Simpson), sia appunto Peter Isherwell, che nel film di McKay spinge la presidentessa americana Janie Orlean (interpretata da Meryl Streep) a tentare di sfruttare le ricchezze minerarie della cometa e in tal modo fa fallire ogni tentativo di dissolvere quei corpi spaziali che minacciano la terra e finiranno per distruggerla.

L’ombra di Jobs e Musk
In questa retorica s’intrecciano questioni diverse. Il mega-imprenditore che nel film è interpretato da Mark Rylance è l’amministratore di un’azienda potentissima, ma sembra chiaro che gli autori abbiano voluto alludere a Steve Jobs, da un lato, e a Elon Musk, dall’altro. Sotto vari aspetti i suoi tratti psicologici disturbati risultano credibili, dato che un eccesso di ricchezza, esattamente come un eccesso di potere, possono mettere a dura prova l’equilibrio di un essere umano: conducendolo verso un delirio d’onnipotenza. E al tempo stesso non sappiamo se quell’enorme ricchezza sia stata ottenuta soddisfacendo le esigenze di larga parte dell’umanità, oppure se sia stata il frutto di rapporti incestuosi tra politica ed economia.

Quali che siano le radici del patrimonio di Isherwell, nel film il miliardario dispone di un potere non compatibile con una società libera, dato che la presidentessa americana pare quasi costretta a soddisfare ogni sua esigenza ed è totalmente al servizio dei suoi progetti.

Destra e sinistra
Il racconto di McKay, a ogni modo, merita una lettura meno superficiale. Esso si colloca entro un dibattito politico ben preciso; e da questo punto di vista “Don’t look up” risulta piuttosto sorprendente. La presidentessa Orlean è infatti presentata come “di destra”, e questo suona sorprendente se si considera che la quasi totalità dei miliardari statunitensi sta con Joe Biden e i democratici. Le ragioni di questa tendenziale simpatia verso la sinistra da parte di tanti miliardari è spesso ideologica, ma è pure legata al fatto che l’interventismo economico permette loro di ottenere facilmente regole a proprio favore, appalti e via dicendo. Oltre a ciò, è chiaro che il tema al centro della vicenda (la minaccia della cometa) allude, in forma allegorica, a quello del cambiamento climatico: né quindi deve sorprendere che la gente più semplice e comune tenda a essere “negazionista”, mentre sono gli scienziati illuminati a fare tutto il possibile per salvare il pianeta.

Lo stesso autore è esplicito nel sottolineare un legame tra il contenuto del film e i reali o pretesi “ritardi” della politica americana nell’affrontare la questione climatica. In recenti interviste McKay ha aggiunto che si può leggere “Don’t look up” anche in riferimento all’emergenza sanitaria, sebbene sia stato scritto prima che il Covid-19 mutasse l’esistenza di tutti noi.

Qui, però, casca l’asino. È infatti contraddittorio denunciare le élite finanziarie che controllano la politica e orientano le principali scelte di bilancio e, al tempo stesso, costruire un’opera di propaganda a favore del gruppo di potere di sinistra che domina la scena globale. Non bastasse questo, il messaggio di McKay si propone di rafforzare le tesi (sull’emergenza climatica e sull’emergenza sanitaria) che gli oligarchi sfruttano a loro favore per imporre quei piani dirigisti che riducono gli spazi di libertà e costruiscono una società del controllo.

Il “crony capitalism” che intreccia politica ed economia è un vero problema, dato che queste relazioni pericolose tra il monopolio della violenza legale, i media, le imprese e gli intellettuali vanno costruendo regimi politici sempre più oppressivi. Il bersaglio individuato da McKay, però, è sbagliato e per questo il film finisce per andare in soccorso proprio di quei “prepotenti” che a parole vorrebbe contestare.

Non bastasse tutto ciò, l’ideologia terrorizzante ed emergenziale che anima il film è esattamente al servizio di quell’espansione del potere che ogni élite finanziaria auspica: dato che è molto facile per i grandi gruppi eludere ogni onere fiscale e, al tempo stesso, mettere le mani sulle risorse destinate alla transizione verde o agli altri obiettivi del “politicamente corretto”.

Isherwell non è orribile perché ha tanti soldi: lo è perché può usare le sue risorse per controllare un potere politico che è intrinsecamente illegittimo e pericoloso. È chiaro che il progressismo liberal non può capire nulla di tutto ciò, dato che adora lo Stato e continua a illudersi che sia possibile un potere buono. E in questo senso “Don’t look up” insegna più di quanto non creda, perché aiuta a capire come quella cultura di cui anche McKaye è interprete sia parte del problema e non già della soluzione.

Da La Provincia, 6 febbraio 22

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