È giusto pagare il posteggio in base al reddito? La proposta è fra le misure annunciate dalla giunta Appendino, per mettere ordine nelle casse comunali. Fino ad ora il talloncino costava 45 euro, per qualsiasi residente che avesse un’automobile e volesse il diritto di parcheggiarla nelle aree blu.
D’ora innanzi, l’esborso sarà graduato sulle fasce Isee, il cosiddetto indicatore della situazione economica equivalente. Se il permesso manterrà lo stesso valore per chi si ferma a meno di 20 mila euro l’anno, per quanti veleggiano fra i 20 e i 50 mila euro la tariffa salirà a 90 euro. Per chi supera la soglia dei 50 mila, c’è un raddoppio netto:180 euro.
Si dirà che sono cifre che non spaventano chi guadagna bene, che le persone spendono di più per servizi meno utili della possibilità di parcheggiare l’auto per la strada, e quant’altro. Del resto, una delle ragioni per cui la pressione fiscale è esorbitante in Italia è proprio questa. Lo Stato e gli enti locali non aumentano di punto in bianco le loro pretese, procedono invece per aggravi che, considerandoli di per sé, sembrano poca cosa, una piccola tassa su questo, un’altra su quell’altro. Di ragionevole aggravio in ragionevole aggravio, è andata a finire che lo Stato si mangia più della metà dei frutti del nostro lavoro. La libertà non si perde mai tutta in una volta, il reddito neppure.
La stessa segmentazione della società per scaglioni Isee, che meglio del reddito dovrebbe fotografare le effettive possibilità delle persone, è comunque uno strumento imperfetto. La «classe media» nello schema Appendino comincia a 20.001 euro: una situazione che appare non troppo diversa da 19.999. Inevitabilmente, le soglie sono convenzionali. Poco male, si dirà: a un bel momento l’aliquota più elevata deve scattare. Così è fatta l’imposta progressiva sul reddito. Il punto di partenza è l’idea che i più ricchi debbano «restituire» qualcosa alla società. Piaccia o meno, questa operazione, fatta sui redditi, ha una sua logica, chiama in causa una certa idea del rapporto fra Stato e individuo, una determinata visione della «giustizia sociale». Quando paghiamo il parcheggio, però, paghiamo il parcheggio. Il Comune non ci chiede un contributo di solidarietà: ma di corrispondergli qualche cosa presumibilmente per gestire i servizi legati alla gestione della viabilità. Noi paghiamo per una risorsa scarsa, lo spazio, che altrimenti sarebbe occupata da qualcun altro. Il parcheggio ha una tariffa, che dovrebbe assomigliare al prezzo dei beni. Quando entriamo in pizzeria, il cameriere non ci chiede la dichiarazione dei redditi, per darci un menù diversamente graduato secondo le soglie Isee.
La giunta sostiene che la misura è pensata per incentivare l’utilizzo dei mezzi pubblici. Non si capisce bene perché questo dovrebbe valere solo per i più abbienti, che fra l’altro verosimilmente girano con vetture più nuove e meno inquinanti. Se pensiamo che i poveri i mezzi pubblici li usino già, penalizzare le auto è improbabile che vada a loro vantaggio, dal momento che come utenti del servizio preferiranno bus e metro meno pieni e congestionati. Forse la logica del provvedimento è molto più elementare: i soldi si vanno a prendere dove ci sono. I ricchi ne hanno, i poveri no. Argomento brutale ma efficace, che forse sopravvaluta la capacità dei ricchi di rimanere tali, nel Paese dei mille balzelli.
Da La Stampa, 22 marzo 2017