Il governo dei più non può essere il governo dei migliori, che scoperta. Ma il vero problema della tensione fra meritocrazia e democrazia è che si corrompono a vicenda.
La meritocrazia è il regime della graduatoria: il modo in cui si dovrebbero scegliere i bravi funzionari, secondo criteri ben definiti. La democrazia è una regola per scegliere chi governa, secondo il principio di maggioranza.
Nelle nostre società, però, la maggioranza è una coalizione di minoranze, opportunamente assemblate da chi ne cerca il consenso. C’è chi vota sulla base di radicate convinzioni personali, oppure prendendo le misure al candidato che ha davanti. Tuttavia, specie in sistemi elettorali costruiti per essere opachi, sono quattro gatti. I píù votano sulla base di un’aspettativa legittima: si aspettano che il loro sostegno abbia una contropartita.
Ciò non può che avere conseguenze, quando si deve decidere se chiudere o meno un certo ospedale, se attribuire più fondi allo spettacolo dal vivo o all’edilizia scolastica, dove costruire un ponte o una strada. Qualsiasi criterio di «merito» astrattamente congegnato soccombe all’incontro con l’unico merito democraticamente fondato: prendere voti.
C’è però un fenomeno di segno contrario. La complessità del reale, la paura dell’imprevisto, suggeriscono all’elettore che persone astrattamente ritenute più competenti abbiano anche la capacità di prevedere il futuro. Ci siamo convinti che ogni tanto il governo dei migliori (variante contemporanea: dei tecnici) serva a riparare gli strappi prodotti dal governo dei più. Ma i «migliori» alla fine sono poi l’esito di un esercizio di pr: i più sicuri nel presentarsi come la risposta alla domanda «chi deve comandare».
Fidarsi delle promesse del ceto politico, affidarsi alla sicumera di pochi autoproclamatisi saggi. È così che si perde l’abitudine a provare a governare da soli la propria vita.
Da La Stampa, 24 febbraio 2016