7 Gennaio 2025
Domenica – Il Sole 24 Ore
Gilberto Corbellini
Professore ordinario di Storia della medicina, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Thomas Szasz (1920-2012) ha influenzato intellettualmente e in profondità il mondo medico-psichiatrico, i campi dell’etica e della filosofia della medicina, non meno che la discussione tra specialisti sui fondamenti delle tesi libertarie, nelle loro dimensioni sia metafisiche e sia politiche. In realtà, in Italia ma anche in Francia e Gran Bretagna, le sue idee furono inizialmente equivocate e scambiate per antipsichiatriche. Intellettuale complesso e provocatorio, Szasz non era ambiguo, e per circa mezzo secolo ha condotto una indefessa battaglia libertaria, sia sul fronte psichiatrico sia su quello antipsichiatrico, che per lui erano la stessa cosa. Dal 1976 uno dei suoi problemi fu di non consentire che il suo pensiero venisse confuso con quelli di Ronald Laing, David Cooper, Franco Basaglia o Michael Foucault, che definiva «ciarlatani al quadrato». Tacitamente gli anti psichiatri provarono ad arruolarlo alle ideologie marxiste e in Italia suoi libri erano pubblicati da case editrici di sinistra. Forse Szasz non veniva davvero letto e si facevano confusioni negli anni 60-70, ma la tesi di Szasz in materia di psichiatria era, inequivocabilmente, che la malattia mentale non esiste. Punto. Perché mai? Nessuno ha mai visto un organo che si chiama “mente”, quindi nemmeno qualche lesione o disfunzione mentale: nella medicina scientifica le malattie sono lesioni o disfunzioni d’organo. L’espressione «malattia mentale» è solo una metafora. Le persone possono sentirsi male, ma le nomenclature psichiatriche sono arbitrarie, e si tratta di «problemi di vita» che non le privano mai della libertà o libero arbitrio. Nulla giustifica quindi la reclusione fisica o chimica dei folli.
Anche dopo la morte di Laing, nel 1989, questi rimase il bersaglio d’elezione di Szasz, il quale lo definiva «inconsistente», anche sul piano personale, e diceva che era un ipocrita quando usava il prefisso «anti-», ma in realtà praticava banalmente della psichiatria, praticando il ricovero coatto, e quindi lavorando al servizio dello stato e contro la libertà delle persone. Laing non rispose mai nel merito e questo forse indispettiva Szasz, che del resto non aveva mai voluto incontrarlo e scrisse l’ultimo libro contro l’antipsichiatria nel 2009, tre anni prima di morire.
La psichiatria è una «pseudo scienza», per Szasz, di cui lo stato terapeutico si serve per privare le persone socialmente o politicamente fastidiose di circolare o di rispondere delle proprie azioni, usando false etichette nosologiche. Quello che stava a cuore a Szasz era difendere la libertà individuale in senso completo, in particolare ogni qualvolta pseudomedici si incaricano per conto delle autorità politiche o giuridiche di stabilire se una persona deve stare rinchiusa in un ospedale, se può abortire o accedere al suicidio medicalmente assistito, se deve o meno prendere droghe o cambiare sesso e se era capace di intendere e volere commettendo un reato, per eventualmente discolparlo.
Il libro di Roberto Festa ha diversi meriti. In primo luogo, rigore e chiarezza. Capitoli e pagine scorrono con una rilassante consequenzialità e l’autore estrae da una bibliografia sterminata (oltre 30 libri e nessuno sa dire quanti articoli o interventi pubblici) tra le migliori gemme della prosa libertaria di Szasz. Nato a Budapest ed emigrato negli Usa nel 1938, assisteva e si opponeva al processo di trasformazione politica della psichiatria e alla messa in funzione delle istituzioni totali, descritte dal sociologo Erwing Goffinann, che costruivano le carriere morali dei malati di mente, li spersonalizzavano ed etichettavano a vita. Per 45 anni Szasz praticò anche psicoterapie sempre «metaforicamente», erano psicoterapie «liberali», cioè basate su una scelta e un accordo economico con la persona che chiedeva aiuto. La terapia della parola doveva servire a far ritrovare l’autonomia personale e l’assunzione di responsabilità.
Istruttivo il capitolo in cui Festa ricostruisce il pensiero di Szasz in merito alle idee che gli altri liberali classici avevano sulle malattie mentali. L’intellettuale ungherese diceva chi aveva fatto i compiti, che aveva cioè capito che la psichiatria è un inganno. Un po’ forse si è accaniva nel caso di alcuni notevoli prodotti intellettuali di Friederich Hayek che si interrogava sui meccanismi cerebrali che generano l’ordine conoscitivo. Szasz era abbagliato da pregiudizi antimaterialisti e antideterministi.
La mente, in qualche modo, produce il libero arbitrio. Questo snodo del suo libertarismo metafisico consente a Szasz di affermare che in quanto dotati di libero arbitrio siamo responsabili, e che sul piano politico ne derivano le norme da usare per trattare le persone. Insieme al libero arbitrio i pilastri del libertarismo sono i principi di non aggressione e di autoproprietà. Szasz plaude a John Stuart Mill quando in On Liberty scriveva «su sé stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente l’individuo è sovrano». Noi sia siamo proprietari di noi stessi e di noi possiamo fare quello che vogliamo. Szasz era favorevole all’aborto, all’uso delle droghe, al cambio di sesso e al suicidio. A condizione che non passassero attraverso un giudizio medico. Per cui era contrario al suicidio medicalmente assistito, perché nel caso spetta a un medico decidere chi ha diritto o meno a ricorrevi.
Le tesi di Szasz hanno influenzato il dibattito bioetico sul «principio di autonomia» e una vasta corrente di studi sul ruolo dei criteri normativi e culturali a monte delle definizioni di salute e malattia. Sebbene negasse alcun fondamento medico alla psichiatria, considerava i contesti sociali, familiari e culturali importanti nel determinare il comportamento e le scelte disfunzionali delle persone. Tuttavia, i traumi passati o il contesto di vita non cambiano il fatto che in ragione del libero arbitrio l’individuo è un agente autonomo.
Roberto Festa
IBL Libri, 2024