L'inverno demografico affrontato a colpi di spot
Gli indicatori demografici per l’anno 2024, pubblicati ieri da Istat, confermano un addensamento di nubi sull’inverno demografico italiano. Le nascite sono al record minimo, con una media di 1,18 figli per donna, e le famiglie sono ridotte a una media di 2,2 componenti. Si emigra sempre di più, con un aumento complessivo del 20,5% rispetto al 2023. La percentuale cresce al 36% se si considera come coorte solo quella dei cittadini italiani sotto i 40 anni.
Al tempo stesso, a rischiarare le previsioni ci sono la speranza di vita alla nascita che sale a 83,4 anni e l’acquisizione di cittadinanza da parte di residenti stranieri. Se nascono pochi italiani, sono sempre di più quelli che lo diventano, con il massimo raggiunto di 217 mila cittadinanze rilasciate.
I dati confermano quello che sappiamo già: siamo una popolazione con alte aspettative di vita, ma sulla via del tramonto. Fatichiamo a trattenere i giovani dall’andare a cercare lavoro qualificato all’estero e, senza gli stranieri, la corsa verso il rovesciamento della piramide demografica sarebbe ancora più veloce.
I governi possono fare nulla rispetto alle scelte di vita delle persone e possono fare molto meno di quello che dicono per aiutare i giovani a metter su famiglia. Possono però evitare di incoraggiarli ad andare via e non ostacolare quelli che vogliono venire.
In questi giorni, mentre dovremmo riflettere sulle eccellenze italiane che non nascono e, se nascono, emigrano, il governo sta reclamizzando l’imminente giornata del Made in Italy del 15 aprile come un «tributo alle eccellenze italiane e alle imprese che con ingegno e innovazione rappresentano l’orgoglio italiano».
Non è molto chiaro, almeno a chi scrive, cosa sia il Made in Italy. In mercati complessi e con catene di valore su scala mondiale, un prodotto italiano è più facile a dirlo che a farlo e etichettarlo. Lo stesso vale per le persone: quanto sono italiani i nati all’estero discendenti da nonni italiani, rispetto agli stranieri stabilmente residenti e contribuenti, i cui figli frequentano le nostre scuole e le cui tasse alimentano le nostre entrate?
In ogni caso, se la tutela del Made in Italy è, come dice la relativa legge, la promozione delle produzioni di eccellenza, sotto tale marchio di ingegno si dovrebbe parlare di acciaio oltre che di formaggi, di industria e grande distribuzione oltre che di artigianato e filiere corte, di modernità oltre che di tradizione, di attrazione di capitali e risorse umane più che di fuga.
Se si continua invece a veicolare un senso di “italianità” come radici culturali da preservare e tramandare a fini identitari, l’inverno demografico sarà solo una delle variabili di un declino più grande, di cui è indice, ad esempio, il tasso di mortalità delle nostre imprese. Per rendere omaggio all’eccellenza italiana, bisognerebbe partire da qui, dalla constatazione che il fattore italiano, con tutto quel che può significare, rischia l’estinzione, perché a un declino demografico somma un declino costante della sua capacità di innovare e trasformarsi e, quindi, competere.
La nostra economia è decima al mondo per numero di brevetti. Ma il Paese che la precede, la piccola Svizzera, ne registra una quantità pari a una volta e mezzo. La Cina 63 volte tanto, la Francia il doppio. Pesando il dato per milioni di abitanti, siamo comunque a metà strada rispetto alle economie più innovative.
Il legame tra creatività, innovazione e demografia è facilmente intuibile buon senso: una società giovane è, per forza di cose, una società più dinamica, disposta a scommettere nel futuro e a guardare con fiducia le novità, anziché il passato con nostalgia. Un governo che ha a cuore il Made in Italy dovrebbe conciliare il rispetto per le tradizioni con l’apertura al rinnovamento. Demografico, culturale, imprenditoriale.