Se la politica «distrae» dai fatti

Le imprese «regolate» hanno davvero premiato Mediaset? E se lo hanno fatto, perché?

19 Settembre 2017

Il Sole 24 Ore

Franco Debenedetti

Presidente, Fondazione IBL

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Scritto da brillanti economisti italiani, pubblicato su una delle principali riviste, premiato come il migliore paper di economia applicata dell’anno: è già una notizia. Se poi tratta di Silvio Berlusconi e del conflitto di interessi, la risonanza è assicurata. Ma anche il rischio di strumentalizzazione.

Il prezzo della pubblicità sui canali Mediaset cresce significativamente negli anni in cui Berlusconi è al Governo: le “aziende regolate” aumentano le loro pubblicità su Mediaset, quelle “non regolate” la diminuiscono. Per gli autori è la conferma della “previsione chiave” del loro modello, e cioè che oltre al lobbying tradizionale esista un “lobbying di mercato”, l’acquisto di servizi dalle aziende possedute dal politico per ricevere favori regolatori. Questo avrebbe fruttato a Berlusconi oltre un miliardo di euro.

Quali sono le imprese “regolate”? Gli autori le desumono dalle risposte a un questionario da parte di 10 economisti italiani, sui 22 interpellati, e da una ricerca online. Senza una chiara definizione, l’elenco può includere di tutto: dalle imprese soggette alla sorveglianza delle Authority fino a quelle (e sono pressoché la totalità) che hanno qualcosa da guadagnare o da perdere dai comportamenti del Governo. Quali i favori regolatori che avrebbero ricevuto o pensato di ricevere? Non ne abbiamo idea, ammettono gli autori: «Our analysis (…] does not document the policy favors provided to firms in exchange». Ma se la definizione di “regolata” è vaga, e il “favore” è ignoto, dove ci porta il ragionamento? Si può persino rovesciare: l’aumento della pubblicità da dimostrazione del rapporto causale tra la pubblicità acquistata e il beneficio atteso diventa definizione delle imprese che cercano di avere un favore. Aver scelto, senza alcuna prova, quel tipo di spiegazione, fa scartare a priori ogni altra possibile causa, e quindi la comprensione vera del fenomeno. Questa la mia critica di fondo, non di un economista ma di un osservatore, si parva licet, “hayekiano”: ogni tanto le scienze sociali presumono troppo, ogni tanto (come in questo caso) partono da assunzioni troppo ingombranti.

Le decisioni degli operatori economici, come la decisione di quanto e come investire in pubblicità, vengono prese in base a considerazioni pratiche, che sono anche “politiche” in senso lato: su maggioranza e opposizione; sui vincoli sociali, lavoro e pensioni; sull’assetto regolatorio; sulla struttura del sistema industriale, soprattutto quanto a proprietà, pubblica o privata. Ma nel modello degli autori la politica è esclusa, o meglio è ridotta al berlusconiano conflitto di interessi.

È per ragioni “politiche” che un governo Berlusconi viene percepito da una larga parte del mondo imprenditoriale come business friendly: essendo riuscito lui, in prima persona, da uomo d’affari, a “liberalizzare” il settore dell’informazione, di tutti il più religiosamente custodito, era il credibile portatore di un progetto di libertà contro chi, nello schieramento opposto, nutriva un’irresistibile propensione per soluzioni stataliste, quando non per la rifondazione del Comunismo. Politico è l’uso del conflitto di interessi, reale ma insolubile, se non ci riuscirono i governi di centrosinistra e una proposta giace in Parlamento, sei anni dopo le dimissioni di Berlusconi. Politico il controllo di un’opinione pubblica sensibilizzata sul tema dei favori che il governo potrebbe dispensare. È frutto di decisioni politiche il fatto che tante imprese, e proprio nel settore delle utility, sono ancora controllate dallo Stato: non hanno bisogno di comprare pubblicità, c’è già il Tesoro che farebbe quanto possibile per aumentarne i dividendi. Ma la nomina dei loro vertici è una delle poche decisioni che il Governo può prendere in autonomia: ma gli autori neppure prendono in considerazione quanto delle spese pubblicitarie possa essere ricondotto a manovre dei vertici di ingraziarsi chi li doveva confermare.

I budget pubblicitari dipendono dal ciclo economico: può indurre a risparmiare o a contrastare, a temporeggiare o a anticipare un miglioramento. Naturale che un governo percepito business friendly induca aspettative di crescita, e queste a maggiori investimenti in pubblicità. Della pubblicità si dice che si sa che solo metà serve, ma non si sa quale: qui, con un governo più pro-affari, appare logico investire sul canale preferito da quelli che credono in lui. L’aumento della pubblicità sulle reti Mediaset potrebbe cioè rivelare semplicemente l’aspettativa che un governo business friendly dia benefici a tutta l’economia, che le aziende vogliano approfittare di questo sentiment per spingere le vendite e che credano i canali Mediaset i più adatti a convogliare i loro messaggi.

La politica, esclusa dal modello, alla fine ritorna. È infatti di valore significativamente politico il risultato che gli autori colgono, la misurazione del vantaggio economico che Berlusconi ne avrebbe tratto: un miliardo di euro. Curioso che esso sia classificato a p.228 come profit, a p.252 invece come increase of revenues, per cifre sostanzialmente uguali. Quando il costo marginale è basso, tale è pure la differenza trai due valori: i termini però restano concettualmente e simbolicamente differenti. Un lapsus? E in tal caso, rivelatore di che?

Da Il Sole 24 Ore, 19 settembre 2017

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