Se nelle democrazie vince chi ha più soldi

Da Washington a Kennedy, tanti ricchi al potere negli USA, ma il ticket Trump-Musk è dalla parte opposta alla maggioranza dei tycoon

7 Ottobre 2024

La Provincia

Carlo Lottieri

Direttore del dipartimento di Teoria politica

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Nella storia americana l’intreccio tra politica e affari è una costante. Perfino George Washington disponeva di un capitale personale enorme, dato che aveva ereditato una piantagione di 8 mila acri sul Monte Vernon, e oltre a ciò era proprietario di più di 50 mila acri nell’attuale West Virginia. Più vicino a noi il clan dei Kennedy disponeva di una fortuna considerevole, dato che Joseph Patrick (padre del presidente John) era un finanziere che, tra le altre cose, aveva realizzato importanti investimenti nell’edilizia.

Certamente colpisce come, in queste settimane, nella politica statunitense sia emerso un nuovo ticket informale, che unisce Donald Trump e il proprietario di Tesla, di X (già Twitter) e di molto altro: Elon Musk. Quest’ultimo è una delle persone più ricche del pianeta e se non può ambire alla Casa Bianca, dato che è nato in Sud Africa, è comunque destinato a giocare un ruolo di primo piano nella nuova amministrazione statunitense se la vittoria sarà dei repubblicani.

II denaro sposta voti

Per accostare la situazione attuale è opportuna, però, qualche considerazione preliminare. Quanti studiano le moderne democrazie sanno bene che si tratta – anche, ma forse in primo luogo – di plutocrazie, dove a decidere none il popolo, ma sono i soldi. Questo avviene per numerose ragioni e una di queste è chi ha più denaro può incidere maggiormente nel dibattito pubblico. La libertà di parola è fondamentale, ma in ogni società in cui vi sia un potere sovrano bisogna accettare anche che l’espressione di questa o quella tesi si converta in un dominio che intreccia politica, idee e affari. Per uscire da questa situazione (oggettivamente drammatica) a mio parere non si deve in alcun modo limitare il diritto di esprimersi, ma invece è opportuno chiedersi come si possano vincolare i centri decisionali, così da impedire alle opinioni di generare norme lesive dei diritti. E comunque l’esistenza del potere stesso, a ben guardare, che rende pericolose le idee e pure le ricchezze.

L’apparenza inganna

Fatta questa premessa, se si torna all’America odierna è chiaro che, in questo come in altri casi, l’apparenza un poco inganna. La maggior parte delle grandi imprese (anche finanziarie) è infatti schierata con i democratici: pure in occasione delle elezioni di quattro anni fa il 65% degli aiuti grosso modo finì a Biden, mentre solo il 35% andò al presidente uscente e poi sconfitto. Le ragioni di questo sbilanciamento del “big business” sono evidenti, e hanno a che fare con l’ideologia e con gli interessi.

Nel cosiddetto “capitalismo arcobaleno” prevale infatti una cultura in sintonia con il progressismo liberal. Keynesiani in economia, spesso ambientalisti radicali, interventisti in politica estera e tendenzialmente avversi ai valori tradizionali quando si discute dei “diritti civili”, i protagonisti della finanza e dell’industria si trovano a proprio agio nei salotti buoni della sinistra di Washington. Oltre a un incontro di principi e sensibilità c’è altro, ovviamente.

Almeno a partire dal New Deal, negli IA Stati Uniti come in Europa le grandi realtà economiche hanno imparato quanto sia facile ottenere profitti grazie a redistribuzione e regolazione. Solo per fare un esempio, il processo di “transizione verde” che è al centro dei programmi di tutta la sinistra occidentale risponde certo a scelte di natura ideale, ma non si può negare come le nuove regole spostino enormi quantità di risorse dalle tasche di alcuni a quelle di altri.

In virtù del fatto che i grandi attori della comunicazione (televisioni, giornali, new media ecc.) sono sempre di qualche grande soggetto privato, il risultato è che anche negli Usa – come nel resto dell’Occidente – abbiamo un conglomerato piuttosto compatto che unisce i maggiori attori della politica, i grandi gruppi dell’economia e i giornalisti e gli intellettuali più influenti.

Se le cose stanno sostanzialmente così (e chi nutra qualche dubbio può andare nel sito di BlackRock e leggere il “codice etico” del colosso finanziario), è chiaro che – anche a dispetto delle evidenze – nel palazzinaro Trump e nello stesso Musk dobbiamo riconoscere due outsider. Indubbiamente il proprietario di X ha un percorso ben particolare, dato che ha fatto una fortuna incredibile con le auto elettriche di Tesla e ora, invece, sta sposando temi e posizioni dell’America profonda che tutto vorrebbe meno che una transizione tecnologica imposta dall’alto. Ma oggi le cose stanno così.

È difficile dire il perché di questa scelta di campo dei due tycoon della destra statunitense, che ne fa- in un certo senso – dei “traditori di classe”. Si può supporre che in entrambi ci sia una qualche sincerità nell’adesione a un quadro valoriale alternativo rispetto a quello delle tribù democratiche dei Kennedy, dei Clinton e degli Obama. E ugualmente possibile, però, che Trump prima e Musk poi abbiano compreso che – nel momento in cui circa una metà della società statunitense è avversa al radicalismo incarnato dal “New York Times” e dalle università della Ivy League – c’era uno spazio libero da occupare.

C’è un nesso molto chiaro ed evidente trai’ denaro e la politica, tra le strategie dell’amministrazione americana e i bilanci delle grandi imprese quotate a Wall Street. Pure i conflitti in giro per il mondo vanno letti a partire da qui. Tutto ciò, però, non è imputabile a una sola parte politica: né a quella che si definisce conservatrice, né a quella che si definisce progressista.

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