Se per difendersi dalla profanazione dei dati personali basta un «no»

La libertà di fare e ottenere molte più cose di ieri, grazie alle nuove tecnologie, è anche la responsabilità individuale di considerarne gli effetti

22 Marzo 2018

Il Mattino

Serena Sileoni

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Se dovessero rivelarsi fondate le repliche di Zuckerberg, la vicenda di Facebook e Cambridge Analytica potrà risolversi probabilmente dentro le categorie canoniche dell’inadempimento contrattuale. La seconda società avrebbe infatti usato illegittimamente i dati forniti dalla prima.

Al di là della controversia specifica, la questione e le domande di fondo sono molto complesse. Internet è un mondo di dati che vive un eterno presente, senza ordine cronologico e con scale di priorità le cui regole algoritmiche appaiono formule magiche (anche se sono a tutti gli effetti matematiche).

Quei dati sono noi stessi, là dentro. Dicono dove abitiamo, cosa abbiamo ordinato a cena attraverso una app di food delivery, se ci piace più il mare o la montagna a seconda di quali foto postiamo delle nostre vacanze, se siamo favorevoli all’euro o no o se ce ne disinteressiamo, a seconda dei giornali on line a cui siamo o non siamo abbonati. Parlano di noi e, come ogni cosa che parla di noi, rivelano qualcosa della nostra identità, delle nostre preferenze, della nostra vita che, come sempre nei rapporti sociali, è usata dagli altri per relazionarsi con noi. Nel mondo reale, sapere che il mio vicino di casa è un tifoso della Lazio eviterà di complimentarmi con lui alla prossima vittoria della Roma. O sapere che un negozio non se la passa tanto bene indurrà il commerciante limitrofo a proporre di cederglielo.

La questione è se il passaparola di internet è così diverso da quello all’orecchio, che da secoli è un modo di avere informazioni al di là della volontà delle persone di cui si vocifera. Il trattamento dei miliardi di dati in internet è senz’altro il passaparola più evoluto che ci sia. La tecnologia consente di sfruttare meglio le informazioni, non necessariamente con esiti molesti per le persone i cui dati sono trattati. Vi risultano davvero così fastidiosi i suggerimenti di acquisto fatti in base ai vostri precedenti? E quali potenzialità vantaggiose possono esserci nella raccolta di informazioni a scopo medico-sanitario, o di sicurezza pubblica?

Le categorie classiche del diritto ci dicono che finché c’è il consenso al trattamento dei dati, esso è lecito. Per questo, non facciamo altro che cliccare, senza troppo badarci, «acconsento». Paradossalmente, abbiamo un maggior controllo oggi delle informazioni su di noi di quanto non fosse ieri, all’epoca del passaparola “reale”. Però è vero che le informazioni che rilasciamo sono molte, molte di più, e si stratificano e assommano l’un l’altra nel corso degli anni in un unico indistinto presente. Ed è anche vero che dal loro uso può discendere una capacità di comunicazione personalizzata sotto mentite spoglie di informazione generalizzata, che è un punto molto delicato in democrazia.

Tuttavia, la personalizzazione di una comunicazione non è un’invenzione di internet. Torniamo all’esempio del tifoso romanista. E il fatto che i dati vengano usati per comprendere dove e come indirizzare la persuasione di un messaggio politico non è molto diverso in linea di principio dall’uso dei sondaggi telefonici degli anni Novanta. D’altro canto, dovremmo chiederci se un dato che viene interpretato e scomposto sia ancora di chi lo ha originato, o di chi vi ha aggiunto un valore che lo ha reso qualcosa di diverso. Una statua di marmo è di chi lo scolpisce, non del concessionario della cava.

Resta però la comune sensazione che la profilazione possa diventare una profanazione. È il grado di dettaglio con cui dalla elaborazione dei dati si arriva a scoprire tutto di noi, e quindi a influenzare i nostri pensieri e comportamenti, che viene percepito come una minaccia alla nostra vita privata, alla nostra identità e alla nostra libertà di pensiero. Rispetto a questo, tuttavia, è ancora valido il baluardo del consenso. Se allo Stato non possiamo nascondere nulla (pensate alle informazioni a fini fiscali), a Facebook sì. Nessuno ci obbliga ad essere lì, né a lasciarvi questa o quella traccia. Fossimo un po’ più responsabili e accorti quando navighiamo, probabilmente piangeremmo meno sul latte versato.

La libertà di fare e ottenere molte più cose di ieri, grazie alle nuove tecnologie, è anche la responsabilità individuale di considerarne gli effetti, positivi e negativi. Meglio usare bene questa, che invocare un orwelliano controllo pubblico.

da Il Mattino, 22 marzo 2018

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