Sergio Ricossa (1927-2016) è stato un importante accademico e divulgatore italiano. Unión Editorial e Istituto Bruno Leoni hanno appena pubblicato la traduzione spagnola de La fine dell’economia. Saggio sulla perfezione. Come giustamente sottolinea Alberto Mingardi nell’introduzione, se fosse stato scritto in inglese, questo libro sarebbe probabilmente considerato “un piccolo classico”.
Ricossa osserva una regolarità: i nemici della libertà amano la perfezione. Sanno cos’è, sono in grado di diagnosticare i mali che ci allontanano dalla perfezione e di prescrivere il rimedio per raggiungerla.
L’intero schema antiliberale confida immancabilmente nel potere e nella saggezza delle élite e diffida delle persone libere e delle loro istituzioni, dalla proprietà al commercio, dal lavoro al denaro, dal mercato a tutti coloro che vi agiscono. Quel mondo di persone libere è segnato dall’imperfezione, da costi e scelte individuali che i potenti considerano capricciosi.
Il “perfettismo” aborrisce il piantagrane, l’imprenditore, il consumatore, l’eccentrico, la persona sociale: «Il perfezionista si interessa agli scostamenti dalla media soprattutto per ridurli ed eliminarli»; la sua economia è sempre macro, mai micro, vuole determinare la vita economica, l’equilibrio e persino lo stato stazionario.
Il piano antiliberale lancia le potenti esche del nuovo mondo, come quella di Alice: «il perfettismo vorrebbe che la riuscita fosse di tutti e che gli sconfitti non esistessero». Lo Stato sociale idolatrato dagli illiberali dovrebbe garantirci «una vita in cui la fortuna e la sfortuna individuale sono bandite, ciascuno partecipa al destino collettivo e si rimette alla volontà generale». Il modello è quello militare, «non è un caso che l’inizio moderno di tutto questo si trovi nella Prussia di Bismarck».
Il risultato è insicurezza, disoccupazione, oppressione fiscale e perdita di diritti e libertà individuali. Ma i perfezionisti incolperanno sempre le persone libere per qualsiasi intoppo. Non è un caso che la sinistra detesti i lavoratori autonomi: il loro stesso nome li irrita.
I liberali, gli imperfettisti, sono molto meno attraenti perché partono dal riconoscimento dell’impossibilità del nuovo mondo e del pericolo rappresentato dai suoi costi. Non si rivolgono mai a persone perfette o a mercati perfetti. Il liberale non cerca risultati ottimali, ma cerca «di evitare i mali peggiori frazionando i poteri e bilanciandoli … Le sue seduzioni essendo ben inferiori a quelle del perfettismo, non sorprende che occupi un posto secondario nella storia del pensiero».
Sergio Ricossa mette il dito sul problema: gli illiberali non solo violano la libertà delle persone, ma le ingannano identificandosi con il progresso: «I perfezionisti, anche se si definiscono progressisti, in realtà non vogliono altro che riportare indietro le lancette dell’orologio».
Carlos Rodríguez Braun è professore di Storia del pensiero economico all’Università Complutense di Madrid
Da Expansión, 6 giugno 2022