La fine del blocco dei licenziamenti non ha prodotto i disastri che i suoi fautori temevano: non c’è stata alcuna selvaggia corsa a lasciare a casa i lavoratori da parte delle imprese. In compenso, ha probabilmente prodotto dei danni più sottili e di lungo termine.
Il divieto era stato introdotto il 17 marzo 2020 ed è rimasto in vigore fino al 1 luglio 2021 (con l’eccezione di alcuni settori in cui è ancora valido fino al 31 ottobre). L’Italia è stato l’unico paese al mondo a dotarsi di uno strumento simile per un periodo di tempo così lungo: pochi altri avevano disposto misure analoghe, ma solo per poche settimane durante la prima fase della pandemia. L’effetto immediato del blocco è stato quello di scaricare interamente la flessione occupazionale – che non poteva non esserci con una crisi come quella dell’anno scorso, a dispetto del generoso e necessario finanziamento della cassa integrazione – sui lavoratori a tempo determinato e le partite Iva.
A partire dal 1 luglio, come ha documentato il consueto rapporto della Banca d’Italia e del Ministero del Lavoro (PDF), solo circa 10.000 procedure di licenziamento sono state rese possibili dal ritorno alla normale disciplina. In compenso, tra il 1 gennaio e il 31 agosto, sono stati creati oltre 830 mila posti di lavoro, un valore superiore non solo a quello del 2020 (327 mila) ma anche del 2019 (689 mila). Il mercato del lavoro, dunque, sembra funzionare a dovere: cioè sembra continuare a produrre un continuo rimescolamento degli addetti e delle mansioni man mano che l’economia evolve. Ed è proprio questa la ragione per cui il blocco dei licenziamenti è stata una politica miope: impedire il licenziamento significa anche, inevitabilmente, frenare le assunzioni, cosa doppiamente incomprensibile in una fase in cui si insiste e anzi si promuove, con la regolamentazione e con la spesa pubblica, la trasformazione (ecologica e digitale) dell’economia.
Ma c’è un altro aspetto dei dati sul mercato del lavoro che merita attenzione: quasi il 90 per cento dei nuovi posti di lavoro (al netto delle cessazioni) sono a tempo determinato. È probabile che questo sia in gran parte un portato delle incertezze che avvolgono il futuro e dei dubbi sull’evoluzione della pandemia. Ma sarebbe sorprendente se proprio il prolungato – e più volte prorogato – blocco dei licenziamenti non avesse contribuito. È vero che la situazione politica e pandemica oggi è radicalmente diversa dai primi mesi del 2020: ma come può un imprenditore avere la certezza che, se le cose andassero peggio delle attese, le misure appena smantellate non tornerebbero in vigore?
Purtroppo, il blocco dei licenziamenti si alimenta della sfiducia della politica verso gli imprenditori, considerati come dei cinici che godono nel causare danni e sofferenze ai loro collaboratori. Era inevitabile che quell’atteggiamento non generasse una sfiducia uguale e contraria: sicché, quel che abbiamo seminato, oggi lo raccogliamo.
28 settembre 2021