28 Novembre 2016
Il Sole 24 Ore
Franco Debenedetti
Presidente, Fondazione IBL
Argomenti / Teoria e scienze sociali
“Il referendum italiano ha le chiavi del futuro dell’euro”, titolava giorni fa il Financial Times. Tanto rapida e profonda è stata la rivoluzione che Donald Trump – meno di tre settimane dall’essere proclamato vincitore e più di dodici dall’essere insediato presidente, prima di aver scelto i suoi più stretti collaboratori e lungi dal potere compiere atti di governo – con le sue sole parole ha prodotto nel quadro politico mondiale. Se i banchieri centrali hanno “l’arte della parola”, come sostiene Alberto Orioli nel suo ultimo libro, i politici a volte hanno il “potere della parola”.
Nel mondo è l’Europa, più degli altri, ad accusare il colpo: dopo l’inaspettata vittoria convoca in fretta e furia una riunione dei capi di governo per cercare una linea comune, e non riesce neppure a metterli tutti intorno al tavolo. È il vincitore del Brexit, Nigel Farage, il primo ad andare a congratularsi. “America first”, dice Trump: la sua scelta solipsistica chiude un periodo di 70 anni in cui gli USA sono stati i garanti di un ordine economico mondiale. Adesso potrebbero anche uscire dalla Nato, e questa comunque non assicurerebbe più automaticamente la difesa degli stati baltici.
L’Europa dovrà provvedere con i propri mezzi alla sua difesa; Putin è un interlocutore come gli altri; la Crimea è un fatto compiuto; il Regno Unito fa bene a lasciare l’Europa. E quanto all’euro, è “un’idea” che non ha mai amato. Trump non è un populista, ma lo scetticismo dichiarato sull’euro, il rigore esibito contro gli immigrati, la critica alle sanzioni per l’Ucraina ne fa l’idolo dei populisti: se per Trump la sua vittoria è una Brexit cinque volte, per Grillo è un vaffa smisurato.
E così si arriva al referendum. I due partiti – oltre il 40% dell’elettorato – che incitano a votare contro la riforma fanno dell’uscita dall’euro il cardine del loro programma politico: la vittoria del NO sarebbe quindi un’ulteriore spinta a scardinare gli equilibri su cui si basano costruzione comunitaria e moneta comune. È questa eventualità, aggiunta alla dimensione della nostra economia, al nostro debito smisurato, all’estensione del nostro perimetro esposto alla migrazione africana, a ispirare l’allarmismo di quel titolo.
La vittoria del NO significherebbe ben di più del rigetto, per molti lustri a venire, di ogni modifica costituzionale significativa. Come già ebbi a dire su queste colonne, l’obbiettivo vero della riforma – “sapere il giorno dopo il voto chi governerà per i prossimi cinque anni” – è passare da un sistema in cui è in parlamento che si formano e si disfano i governi, a uno in cui sono i cittadini a scegliere da chi farsi governare. Cioè passare dal proporzionale al maggioritario.
La pretestuosa polemica sul “disposto congiunto” ha oscurato questo senso complessivo della riforma: senza una legge elettorale maggioritaria le riforme costituzionali servirebbero sì a migliorare l’efficienza di governi, ma non eliminerebbero debolezze e labilità intrinseche al sistema di democrazia parlamentare. L’avevano previsto i padri costituenti, l’hanno confermato i nostri 63 governi in 63 anni.
Se vincesse il NO, avrebbe vinto chi non vuole cambiare la Costituzione, chi non si preoccupa di avere governi più stabili e più efficienti: il suo sistema elettorale è il proporzionale. A riscrivere la legge elettorale almeno del Senato, c’è già il Consultellum, proporzionale col marchio di costituzionalità. Grillini e salviniani non avrebbero la maggioranza in Parlamento, né la vorrebbero: per crescere gli basterebbe assistere al succedersi di governi deboli, in equilibri precari.
È l’incapacità di siffatti governi di riformare la struttura del nostro sistema produttivo all’origine dell’impressionante perdita di produttività che abbiamo accumulato negli ultimi vent’anni. Andando avanti per questa strada, a provocare l’uscita dell’Italia dall’euro non sarebbe il drammatico errore di forze politiche, ma l’inesorabile conseguenza dell’incapacità di riformarsi.
Anche se vince il SI bisognerà metter mano alla legge elettorale che consenta a governi stabili di essere anche più efficienti. L’Italicum male si adatta a un elettorato ormai tripolare, e chi ha chiaro quale catastrofe sarebbe l’uscita dall’euro ha il dovere di evitare il rischio di consegnare la chiave del Paese a chi ne fa il punto centrale della propria propaganda, e Governo e maggioranza si sono impegnati con atti parlamentari a metter mano all’Italicum dopo il referendum. Come? C’è un modello convalidato da 200 anni di esperienza nella più antica delle democrazie, l’uninominale di collegio a turno unico: premia i partiti che hanno buoni candidati, e questo è di per sè un bene, obbligherà anche i 5S ad avere candidati presentabili, e quindi più attenti a non fare scemenze. Inoltre stabilisce un rapporto diretto e duraturo tra parlamentare ed elettorato. Impegnativo per i candidati, in campagna elettorale e durante il mandato, come ricorda chi lo sperimentò nella seconda parte degli anni ’90, ma capace di dare soddisfazioni, e senso all’impegno.
Da Il Sole-24 Ore, 26 novembre 2016